Fonte:sole24ore di Vincenzo Giannotti
Il rinvio a giudizio del dipendente pubblico, sollecitato dall'ente mediante specifica denuncia, poi successivamente assolto dal reato ipotizzato, radica un conflitto di interesse non sanabile, neppure in caso di assoluzione piena, tanto da non permettergli di poter ambire al rimborso delle spese legali sostenute per la propria difesa in giudizio. Sono queste le conclusioni della Cassazione contenute nella sentenza n. 17874/2018.
FONTE:LEGGE PER TUTTI
Se non è mobbing, il giudice può condannare il datore di lavoro al risarcimento del danno nei confronti del dipendente per straining o per il singolo atto illecito.
Se fai una causa di mobbing contro l’azienda non è facile vincere. Questo perché, ai fini del mobbing, bisogna dimostrare non un singolo comportamento illecito tenuto dal datore di lavoro ma una serie di condotte tutte rivolte a un medesimo fine: quello di umiliare, vessare, isolare e mortificare il dipendente. Insomma ci deve essere un intento uguale e unitario per tutte le ipotesi: la persecuzione. In più c’è da dimostrare che, da tale situazione, il lavoratore ha subìto un danno. Se i comportamenti illeciti dovessero risultare isolati ed episodici non saremmo più nell’ambito del mobbing. Ma non per questo si perde la causa. Difatti, secondo alcune recenti sentenze della Cassazione [Cass. ord. n. 3871/18 del 16.02.2018.], anche quando dovesse essere rigettata la domanda di mobbing, il giudice potrebbe ugualmente qualificare la condotta del datore come illecita e sanzionarlo con il risarcimento del danno. In che modo? Lo scopriremo in questo articolo dedicato appunto al mobbing e alle sentenze contro il datore di lavoro.
Indice
Mobbing: cos’è?
Prima di proseguire nella lettura del seguente articolo ti consiglio di leggere Quando c’è mobbing sul lavoro. Lì abbiamo spiegato che non esiste una definizione tipica di mobbing: questo può assumere le più svariate forme comportamentali. La legge definisce il mobbing come qualsiasi disegno del datore di lavoro di carattere persecutorio. Condizione minima ed essenziale per aversi mobbing è quindi una pluralità di azioni tra loro connesse e finalizzate alla vessazione. Non c’è un atto tipico di mobbing: esso può esplicarsi con comportamenti di varia natura come, ad esempio, l’attribuzione al lavoratore di mansioni inferiori rispetto a quelle svolte da contratto oppure la privazione di qualsiasi mansione, l’abuso di procedimenti disciplinari, la negazione delle ferie, le ripetute offese e denigrazioni, ecc. Tutti questi comportamenti, se singolarmente presi, sono di certo illeciti e danno diritto al risarcimento; tuttavia, quando ripetuti e connessi tra loro dallo scopo persecutorio, danno origine a qualcosa di più grave che è appunto il mobbing.
I tre stadi del mobbing
In un’ottica di gravità crescente si arriva al mobbing tramite tre gradini di cui i primi due, pur non costituendo mobbing, sono ugualmente sanzionati.
Il primo è quello del singolo atto illecito posto dal datore di lavoro. È ad esempio il caso della negazione di un giorno di permesso pur essendovene i presupposti o dell’attribuzione di mansioni inferiori in assenza dei presupposti di legge. In tale ipotesi il lavoratore ha diritto di agire per ottenere l’annullamento del provvedimento dell’azienda e il ripristino dei suoi diritti.
Il secondo stadio è quello dello straining che è una sorta di mobbing attenuato. Qui non abbiamo un solo atto illecito, come nel primo caso, ma una pluralità, che tuttavia non è ancora sistematicità come il mobbing richiede. Dunque nello straining manca il carattere della continuità delle azioni vessatorie. Si ha straining quando lo stress forzato cui è sottoposto il dipendente per via delle condizioni di avversione ambientale (dovute colleghi, superiori gerarchici o datore di lavoro) non è classificabile come mobbing, ma è comunque tale da provocare in lui una condizione lavorativa negativa – costante e permanente – con conseguente danno alla salute.
Solo quando le condotte non sono più isolate ed episodiche, ma continue allora scatta il mobbing.
Causa di mobbing: si vince sempre
Con due recenti e interessanti sentenze la Cassazione ha spiegato che, se anche il dipendente agisce per mobbing contro il datore di lavoro e il giudice rileva che manca l’elemento della continuità delle condotte illecite, ossia il “disegno unitario” volto alla mortificazione, ciò non preclude una condanna per straining o per il singolo atto illecito. In pratica – secondo l’orientamento della giurisprudenza – anche senza esplicita richiesta del dipendente, il giudice che esclude il mobbing deve valutare se le singole condotte del datore sono illecite.
Senza mobbing c’è risarcimento per il singolo atto illecito
Con una prima pronuncia [Cass. ord. n. 3871/18 del 16.02.2018.], la Corte ha detto che, se il tribunale intende rigettare la richiesta di condanna per mobbing, deve comunque accertare se, singolarmente considerati, i comportamenti del datore di lavoro possono essere fonte di responsabilità dell’azienda, anche se manca l’intento persecutorio. In tal caso deve ugualmente emettere la condanna (ovviamente non per mobbing ma per il singolo episodio). Di tanto abbiamo parlato nell’articolo Risarcimento danni a lavoro: spetta anche senza mobbing? Anche se non c’è mobbing, il datore di lavoro che sbaglia deve risarcire il dipendente. L’assenza di mobbing, infatti, non esclude la possibilità che il giudice ravvisi comunque un illecito nella condotta del datore di lavoro.
Senza mobbing ci può essere risarcimento per straining
Con la seconda sentenza [Cass. sent. n. 18164/2018.], la Corte ha riaffermato lo stesso principio appena evidenziato, chiarendo che il giudice ha anche la possibilità di qualificare la condotta del datore come straining qualora non ravvisi gli estremi del mobbing. Se nel proprio ricorso il dipendente censuri il comportamento del datore come mobbing e poi così non dovesse risultare, ciò non preclude una rivalutazione di tale illecito come straining; si tratta infatti di diverse qualificazioni per comportamenti entrambi ostili. Qualificare la condotta vessatoria come straining mentre nel ricorso il lavoratore fa riferimento al mobbing non preclude dunque al dipendente la possibilità di ottenere il risarcimento perché si tratta di adoperare solo differenti termini per identificare comportamenti ostili che incidono sul diritto alla salute tutelato dalla Costituzione.
Lo straining è semplicemente una forma meno accentuata di mobbing ove «non si riscontra il carattere della continuità delle azioni vessatorie», ma che comunque tali azioni giustificano la pretesa risarcitoria in caso di danno all’integrità psico-fisica del lavoratore.Ciò sul presupposto che il datore di lavoro è tenuto ad evitare situazioni che diano origine ad una condizione che «possa presuntivamente ricondurre a questa forma di danno anche in caso di mancata prova di un preciso intento persecutorio».
In sintesi
La sintesi delle due sentenze citate è dunque questa: se anche il dipendente esagera nel proprio ricorso e, sbagliando, accusa il datore di lavoro di mobbing mentre il giudice poi rileva che manca la pluralità di condotte e il disegno unitario vessatorio, ciò non significa perdere la causa: il tribunale infatti, se ritiene che un illecito è stato comunque perpetrato, può condannare l’azienda per il singolo atto oppure per lo straining.
Corte di Cassazione, sez. Lavoro, ordinanza 21 marzo – 10 luglio 2018, n. 18164
Presidente Bronzini – Relatore Marotta
Fatto e diritto
Rilevato che:
1.1. con ricorso al Tribunale di Roma D.T. , dipendente della PR.IM. Promozioni Generali S.p.A., chiedeva che fosse accertata la sussistenza di una condotta mobbizzante da parte della società datrice di lavoro con condanna di quest’ultima al risarcimento di tutti i danni subiti e subendi, patrimoniali e non, nella misura di Euro 200.000,00 oltre che accertata la responsabilità della società in ordine all’insorgenza ed alla prosecuzione della malattia da cui era affetta che aveva determinato le sue assenze dal lavoro scaturite, poi, nel licenziamento per superamento del periodo di comporto, con reintegra nel posto di lavoro e conseguente risarcimento del danno commisurato alla retribuzione globale di fatto dalla data del licenziamento alla reintegra ovvero in subordine alla riassunzione o, in mancanza, nella misura delle retribuzioni globali di fatto da determinare per 15/12;
1.2. il Tribunale rigettava la domanda;
1.3. la decisione era confermata dalla Corte d’appello di Roma;
quest’ultima riteneva che non avessero formato oggetto di contestazione le circostanze che, come ritenuto dal Tribunale, non fosse emerso che la D. non aveva fruito con continuazione delle pause pranzo né era stata umiliata davanti al personale per pause troppo lunghe dovute ad esigenze fisiologiche ed altresì che alle tre contestazioni disciplinati del 14/12/2006, del 16/1/2007 e del 19/1/2007 non avevano fatto seguito sanzioni;
quanto all’acclarato episodio accaduto in data 10/7/2006 consistito nell’aver l’ing. A. , punto di riferimento di tutta l’azienda, accusato la dipendente, davanti ad altri colleghi di non essere in grado di reperire una segretaria usando un tono minaccioso e parole “pesanti” e disponendone l’immediato trasferimento dall’amministrazione alla segreteria, riteneva che lo stesso non potesse integrare una ipotesi di mobbing (perché solo di questo si chiedeva l’accertamento con il ricorso di primo grado e non anche dello straining, la cui prospettazione era stata dedotta solo con l’atto di appello);
2. avverso l’anzidetta sentenza della Corte territoriale D.T. propone ricorso per cassazione fondato su due motivi;
3. la società resiste con controricorso;
4. non sono state depositate memorie.
Considerato che:
1.1. con il primo motivo la ricorrente denuncia la violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto riguardanti la qualificazione della domanda (art. 115 cod. proc. civ.) ed il divieto di domanda nuova (art. 437 cod. proc. civ.);
si duole della ritenuta inammissibilità della domanda concernente la sussistenza di una ipotesi di straining e rileva che quest’ultimo si relaziona con il mobbing come un minus rispetto ad un plus, per cui la domanda formulata in appello sulla base delle risultanze dell’istruttoria svolta in primo grado ai fini dell’accertamento dei fatti dedotti con l’atto introduttivo del giudizio non poteva essere considerata domanda nuova;
1.2. con il secondo motivo la ricorrente denuncia l’omessa pronuncia sui punti sub 2) sub 3) dell’atto di appello;
lamenta il mancato esame dei rilievi concernenti la ricollegabilità causale dell’episodio ascritto ad una condotta di straining alla malattia da cui la D. era affetta ed alle conseguenti assenze che avevano determinato il superamento del periodo di comporto;
2. il primo motivo è fondato e determina l’assorbimento del secondo;
si osserva innanzitutto che il motivo supera il preliminare vaglio di ammissibilità considerato che sono trascritti alle pagg. 2 e 3 del ricorso per cassazione i motivi di appello ed a pag. 8 il capitolo 14 del ricorso di primo grado, già sufficienti a reggere le censure e che costituiscono, inoltre, parte integrante del ricorso le certificazioni mediche e gli ulteriori atti di causa richiamati a sostegno dei rilievi;
tanto precisato si osserva che questa Corte ha già affermato, con indirizzo cui il Collegio intende dare continuità, che lo straining altro non è se non una forma attenuata di mobbing nella quale non si riscontra il carattere della continuità delle azioni vessatorie, azioni che, peraltro, ove si rivelino produttive di danno all’integrità psico-fisica del lavoratore, giustificano la pretesa risarcitoria fondata sull’art. 2087 cod. civ., norma di cui da tempo è stata fornita un’interpretazione estensiva costituzionalmente orientata al rispetto di beni essenziali e primari quali sono il diritto alla salute, la dignità umana e i diritti inviolabili della persona, tutelati dagli artt. 32, 41 e 2 Cost. (v. Cass. 4 novembre 2016, n. 3291 e la recente Cass. 19 febbraio 2018, n. 3977);
così nelle decisioni citate è stato precisato che non integra violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. l’aver qualificato la fattispecie come straining mentre in ricorso si sia fatto riferimento al mobbing, in quanto si tratta soltanto di adoperare differenti qualificazioni di tipo medico-legale, per identificare comportamenti ostili, in ipotesi atti ad incidere sul diritto alla salute, costituzionalmente tutelato, essendo il datore di lavoro tenuto ad evitare situazioni “stresso gene” che diano origine ad una condizione che, per caratteristiche, gravità, frustrazione personale o professionale, altre circostanze del caso concreto possa presuntivamente ricondurre a questa forma di danno anche in caso di mancata prova di un preciso intento persecutorio (sul punto, la già citata Cass. n. 3291/2016 e la più recente Cass. 29 marzo 2018, n. 7844);
nella fattispecie, dunque, non poteva essere considerata preclusiva di una valutazione della condotta datoriale come straining la prospettazione, nel ricorso di primo grado, di tale condotta come mobbing, non sussistendo alcuna novità della questione;
3. conclusivamente, deve essere accolto il primo motivo di ricorso (assorbito il secondo) e la sentenza impugnata deve essere cassata in relazione al motivo accolto con rinvio alla Corte di appello di Roma che, in diversa composizione, procederà ad un nuovo esame e provvederà anche in ordine alle spese del presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo motivo di ricorso, assorbito il secondo; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per le spese, alla Corte di appello di Roma, in diversa composizione.
FONTE:LEGGE PER TUTTI
Scatta il licenziamento del dipendente che abusa dei permessi della legge 104, tuttavia l’assistenza non deve essere continuativa e concentrata necessariamente nelle ore di lavoro.
Non c’è modo di bluffare con lalegge 104: se anche la normativa è stata di recente riformata e non richiede più un’assistenza continuativa del familiare portatore di handicap per giustificare l’assenza dal lavoro, gli abusi sui permessi sono sanzionati con il licenziamento. E non solo: può scattare anche il procedimento penale a carico di chi utilizza i tre giorni al mese per i propri comodi. Che poi, magari, “comodi” non sono visto che avere un familiare disabile non piace a nessuno, sia per la sofferenza che per il disagio. Ma tant’è: una volta che ci si trova in questa triste situazione non si può fare nulla e, purtroppo, neanche sollazzarsi in vacanza. Secondo infatti una recente sentenza della Cassazione [Cass. ord. n. 18293/18 dell’11.07.2018.], rischia il licenziamento il dipendente che viene sorpreso a fare un viaggio durante le 24 ore in cui invece dovrebbe prestare assistenza. La sentenza affronta indirettamente un quesito che spesso si pone il lavoratore: si possono attaccare i permessi 104 alle ferie?
Indice
Immaginiamo che tu sia andato in vacanza in una meta turistica particolarmente suggestiva. Ora che le ferie stanno volgendo al termine non riesci proprio a rassegnarti all’idea di tornare alla tua scrivania e agli orari serrati dell’azienda. Vorresti qualche giorno di pace, per riabituarti alla vita cittadina. Peraltro, sei stato lontano da casa per quasi due settimane e non ti sei preso cura di tua madre che è invalida da anni e che, per tutto questo tempo, è restata sola. Dovresti passare un po’ di giorni con lei. Così, per dare un colpo al cerchio e uno alla botte, hai deciso di prenderti un giorno di “cuscinetto” e di attaccare alle ferie un permesso della legge 104. Temi però che questa richiesta possa essere considerata un abuso e che, eventualmente, possa comportarti un licenziamento. Cosa rischi davvero?
Da diversi anni la Cassazione ha stabilito che può essere licenziato per giusta causa il lavoratore “pizzicato” a fare gite e viaggi mentre è in permesso ai sensi della “104”. La legge non vuole che il dipendente stia tutte le 24 ore con il portatore di handicap, anche perché scopo dei permessi non è solo garantire un’assistenza a chi ne ha bisogno stretto, ma anche di consentire a chi, come “dopolavoro” si prende cura del familiare disabile, di avere una boccata di ossigeno, di svolgere un minimo di attività sociale e di recuperare le energie quando i suoi colleghi, invece, al termine dell’orario lavorativo, si dedicano abitualmente a hobby e famiglia. Tuttavia questo non può neanche voler dire una totale libertà di assentarsi dal luogo ove sta l’invalido visto che è pur sempre questi il primo destinatario della tutela legale. Il lavoratore allora avrà la possibilità di gestire l’assistenza per come meglio crede e negli orari che preferisce, ma non potrà andare fuori città.
Alla luce di quanto abbiamo appena detto è facile comprendere come, in linea teorica, non c’è alcun limite a fruire dei permessi della legge 104 anche dopo le ferie, ed attaccarli così all’ultimo giorno di vacanza, ma a condizione che in quell’arco di tempo il dipendente sia già tornato nella città ove si trova il familiare bisognoso di assistenza e non sia ancora nella meta turistica. Nel qual caso sarebbe invece passibile di licenziamento perché snaturerebbe la finalità dei permessi stessi.
Secondo la Cassazione, chi abusa dei permessi della legge 104 compie quell’atto di infrazione talmente grave da non consentire più la prosecuzione del rapporto di lavoro. Si verifica cioè quella famosa giusta causa di licenziamento che consente al datore di interrompere il rapporto in tronco, senza preavviso.
Nel caso di specie, la Corte ha ravvisato gli estremi della giusta causa di licenziamento nel fatto che la donna abbia fornito risposte evasive alle pressanti richieste della datrice di lavoro di conoscere in che modo avesse fruito dei permessi della legge n. 104/1992, e si sia allontanata dall’abitazione della propria madre, per assistere la quale aveva fruito di una giornata di permesso, per recarsi con la propria famiglia in una nota località turistica.
Di fronte alla contestazione del datore di lavoro – sostiene la Corte – spetta al lavoratore dimostrare di non aver abusato delle agevolazioni concesse per l’assistenza ai familiari.
In passato la Cassazione ha anche detto che l’abuso dei permessi 104 integra anche un reato di indebita percezione di contributi statali visto che il dipendente – che si vede anticipato lo stipendio dal datore di lavoro, il quale però lo compensa coi contributi versati allo Stato – commette in definitiva una frode all’Inps.
FONTE:TERMOMETRO POLITICO
Visita fiscale Inps: esenzione e orario reperibilità, quando è possibile uscire.
Per quanto riguarda la visita fiscale Inps spesso ci si chiede se si è costretti a restare a casa anche durante le fasce orarie di reperibilità, ad esempio nel caso in cui faccia troppo caldo. O per chissà quali altre ragioni documentabili. Insomma, quando è possibile uscire? La normativa imposta dal recente decreto Madia parla chiaro a riguardo. Ci sono delle fasce orarie di reperibilità da rispettare e riguardano i dipendenti pubblici e privati. I primi sono chiamati a rispettare i seguenti orari: 9-13; 15-18. I secondi dovranno farsi trovare al domicilio indicato nelle seguenti fasce orarie: 10-12; 17-19. Si ricorda che le visite fiscali Inps possono essere effettuate non solo durante i giorni festivi e i weekend, ma anche più volte nella stessa giornata. E comunque sin dal primo giorno di assenza dal posto di lavoro per malattia.
I lavoratori dipendenti del settore pubblico e privato sono dunque obbligati a rispettare quella determinata reperibilità oraria. Questo significa che devono farsi trovare al domicilio indicato in quegli orari, anche dopo la prima visita fiscale.
Pur precisando che i casi di infortunio sul lavoro restano di competenza dell’Inail, la domanda che alcuni si pongono è la seguente. È possibile uscire di casa? Certamente sì, ma non negli orari di reperibilità. E sempre che l’uscita dal domicilio non pregiudichi i tempi di guarigione o la gravità della malattia, ritardando così il rientro dal lavoro.
Mettiamo però che il soggetto si sia rotto un braccio, oppure che sia caduto in depressione. In questo caso le singolarità sono diverse e vanno valutate a seconda del caso. Un soggetto depresso può uscire durante gli orari di reperibilità? Sì, se la terapia medica accertata per curare la patologia consista nell’uscire all’aria fresca. Una persona che si è rotta un braccio, invece, potrebbe comunque uscire di casa durante gli orari di reperibilità? La risposta è qui più dubbiosa. E bisogna dunque fare riferimento ai casi di esenzione dagli orari di reperibilità per la visita fiscale Inps.
Chi si assenta dal domicilio durante le fasce di reperibilità, deve avvisare per tempo il datore di lavoro e dimostrare con comprovata documentazione il motivo dell’assenza. In breve, deve portare documentazione accertata che dia valore di veridicità alla ragione dell’assenza. L’esenzione dalle visite fiscali Inps è consentita in caso di patologie gravi che richiedono terapie salvavita; oppure in presenza di stati patologici connessi alla situazione di invalidità (pari o superiore al 67%). Infine l’esenzione può avvenire anche per causa di servizio riconosciuta che abbia dato luogo alla ascrivibilità della menomazione unica o plurima alle patologie rientranti nella tabella E del decreto Madia. In conclusione, si ricorda che gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali non sono di competenza dell’Inps, ma dell’Inail.
FONTE:LEGGE PER TUTTI
*Quali sono e come si compilano i moduli per richiedere gli assegni al nucleo familiare: domanda, autorizzazione Inps, dati per il calcolo Anf.
Da PensioniOggi:
Come si calcolano i contributi volontari dopo un lavoro part-time
In caso di rapporto di lavoro part-time dovrà essere considerata la retribuzione media riferita alle ultime 52 settimane utili per la misura.
Capita spesso che i lavoratori che hanno concluso l'attività lavorativa in regime di part-time chiedono la prosecuzione volontaria dell'assicurazione IVS per raggiungere i requisiti contributivi per il diritto alla pensione anticipata. In questo caso molti assicurati si trovano recapitare dall'Inps un contributo volontario piuttosto salato rispetto alle aspettative dato che la retribuzione percepita prima della cessazione dal lavoro era influenzata dal rapporto di lavoro part-time.
Com'è noto la regola generale in materia di contribuzione volontaria è che il contributo da versare (giornaliero o settimanale a seconda dei casi) debba essere calcolato sulla retribuzione pensionabile percepita nelle ultime 52 settimane antecedenti la domanda di autorizzazione ai volontari. Il valore deve essere, quindi, moltiplicato per l'aliquota contributiva vigente nella gestione previdenziale in cui si chiede l'autorizzazione alla prosecuzione volontaria dell'assicurazione (in genere il 33%) e rapportato al numero di settimane che si intende coprire ai fini pensionistici. Se nei 12 mesi antecedenti alla domanda non si trovano 52 settimane di contribuzione derivante da lavoro occorrerà procedere a ritroso nel tempo sino a ricostruire il lasso di tempo indicato.
Così ad esempio un lavoratore dipendente che nei 12 mesi prima della domanda abbia percepito una retribuzione di 40mila euro dovrà pagare un contributo volontario di 13.200 euro per avere un anno pieno di copertura pensionistica (40mila x 0,33). Ma cosa accade se il prestatore ha svolto lavoro part-time e, poi, chiede i versamenti volontari? Molti pensano che il part-time riducendo la retribuzione pensionabile diminuirà anche il costo del versamento volontario. Così nell'esempio sopra citato se il lavoratore avesse prestato un lavoro part-time al 50% avrebbe ottenuto - nei 12 mesi antecedenti la domanda ai vv - un reddito di 20mila euro. In caso di prosecuzione volontaria dei contributi il lavoratore è portato a pensare di dover pagare un onere praticamente dimezzato.
Purtroppo le cose stanno diversamente. In caso di lavoro part-time, infatti, la ricostruzione della retribuzione pensionabile avviene prendendo come punto di riferimento le settimane utili ai fini della misura della pensione e non ai fini del diritto riportate nell'estratto conto contributivo. E dato che con il rapporto di lavoro part-time i due valori non coincidono (le settimane ai fini della misura vengono ridotte in proporzione al servizio prestato in regime di tempo parziale) per ricostruire il periodo di riferimento occorrerà prendere in considerazione la retribuzione pensionabile percepita su un arco temporale più lungo rispetto alle ultime 52 settimane utili ai fini del diritto alla pensione. Nel caso di specie, dato che le settimane utili ai fini della misura saranno 26 e non 52, si dovrà utilizzare la retribuzione pensionabile percepita negli ultimi due anni per stabilire l'importo dei versamenti volontari dovuti una volta concluso il rapporto di lavoro. Essendo il periodo di riferimento più lungo l'importo da pagare in sostanza sarà più elevato, praticamente come se l'ultimo periodo fosse stato lavorato a tempo pieno.
La contribuzione volontaria ha, comunque, un minimale annuo al di sotto del quale non è possibile scendere. Nel 2018 il contributo minimo da pagare è rapportato ad una retribuzione settimanale minima di 202,97€. Così i lavoratori dipendenti devono versare un minimo di 66,98€ per coprire una settimana ossia 3.482,96€ per coprire ai fini pensionistici l'anno intero. Gli autorizzati ai volontari entro il 1995 pagano invece un contributo di 56.56€ euro a settimana dato che nei loro confronti è mantenuta l'aliquota contributiva del 27,87%.
"Il Governo è al lavoro sulla quota 100 come strumento per anticipare il pensionamento e sta valutando le diverse ipotesi in campo. Non tutte le possibili combinazioni sono convenienti". Così il ministro del Lavoro e dello Sviluppo economico, Luigi Di Maio, presentando le linee guida dei suoi dicasteri presso le Commissioni riunite Industria, commercio e turismo e Lavoro e politiche sociali del Senato.
Secondo il Ministro occorre considerare attentamente i risvolti per le platee beneficiarie a seconda di come sarà calibrato l'intervento. Nei giorni scorsi, come noto, era stata anticipata l'ipotesi della Lega, basata su una combinazione fissa di 64 anni e 36 di contributi con un tetto alla contribuzione figurativa e una penalità nel calcolo della pensione dei lavoratori con almeno 18 anni di contributi al 1995. Una proposta che non convince del tutto in quanto troppo rigida e perchè lascia fuori le categorie più deboli attualmente nel perimetro dell'ape sociale.
Di Maio ha, comunque, confermato la volontà del Governo a mettere mano quanto prima alla Legge Fornero già in occasione della prossima legge di bilancio per il 2019. Sempre in tema di flessibilità in uscita il Ministro ha ribadito che ne tra i destinatari ci saranno coloro che hanno maturato i 41 anni di contributi indipendentemente dall'età anagrafica e si lavorerà anche sull'opzione donna e sui lavori usuranti per dare dignità a chi svolge queste attività lavorative. Il Ministro ha quindi ribadito: "aboliremo le pensioni d'oro o di privilegio, sopra i 4-5mila euro netti e non legate alla contribuzione, anche per finanziare quelle di cittadinanza". "Già questa settimana ha detto il Ministro sarà approvata la delibera che taglia il Vitalizio agli ex Deputati: "ci attendiamo che anche il Senato si adegui il prima possibile".
Quanto al reddito di cittadinanza, Di Maio ha detto che "uno degli obiettivi principali del Governo è l'istituzione del reddito di cittadinanza, che non consideriamo una misura assistenziale, ma una misura economica. Non è un sussidio di povertà o sopravvivenza", ma un "volano che spinge il soggetto a ritornare nel mondo del lavoro".
Pensioni, lavoro ed imprese. Sono stati questi i temi trattati ieri dal ministro del lavoro Luigi Di Maio, a palazzo Madama, dove ha esposto le linee programmatiche dei due dicasteri di cui è titolare (l'altro è quello dello sviluppo economico), mettendo anche in risalto quanto finora confluito nel decreto dignità, in corso di pubblicazione in Gazzetta Ufficiale. Si parte dal tema più cruciale, quello del lavoro con l'obiettivo di abbattere il cuneo fiscale sul quale il numero uno di via Veneto s'è augurato che «i primi accenni» possano affiorare «già nella fase di conversione del decreto dignità».
Sul ritorno dei buoni per il pagamento dellavoro occasionale (i voucher), Di Maio ha chiarito che possono servire in comparti come l'agricoltura, il giardinaggio, i servizi di baby-sitting e il turismo «per specifiche competenze», ma s'è appellato alle forze di maggioranza, affinché vengano evitati «abusi in futuro» nel loro uso. Nel concreto bisognerà vedere come declinare l'intervento soprattutto nel campo dell'agricoltura dato che già attualmente i voucher sono previsti in favore dei pensionati di vecchiaia e di invalidità; i giovani fino a 25 anni iscritti a istituti o università; disoccupati e percettori di integrazioni al reddito. Un'ipotesi di intervento potrebbe essere, ad esempio, l'innalzamento dell’attuale tetto di 5.000 euro complessivi nell’anno per le aziende, e quello individuale di 2.500 euro per ogni lavoratore impiegato.
Per quanto riguarda le pensioni il Ministro si è detto pronto a valutare quei "canali di uscita più equi e semplici", nonché «superare» le norme che hanno allungato i tempi per l'andata in quiescenza dell'ex ministro Elsa Fornero: "Chi ha maturato un'anzianità contributiva di 41 anni ha diritto a beneficiare di una finestra, senza dovere attendere l'attuale requisito d'età", ha rimarcato. E se su quota 100 il governo esamina le opzioni più vantaggiose, la stella polare resta quella di "abolire le pensioni d'oro, o di privilegio, sopra i 4-5.000 euro netti e non legate alla contribuzione", anche per accrescere i trattamenti più bassi. C'è poi la questione del reddito di cittadinanza che Di Maio punta ad introdurre il prima possibile, già dal prossimo anno, previo rafforzamento dei Centri per l'Impiego.
Infine sul capitolo investimenti Di Maio ha indicato la volontà di accrescere il mercato del «private equity» e, in particolare, il «venture capital», nel quale l'esecutivo vuole «convogliare una quota del risparmio dei fondi previdenziali ed assicurativi verso le Pmi ad alto potenziale», rafforzando, l'«asset allocation», anche «attraverso la creazione di una piattaforma pubblica, che favorisca forme di aggregazione fra Fondi pensione e Casse di previdenza». Poi gli altri temi sentiti dai pentastellati: una stretta alle false coop introducendo un apparato sanzionatorio più efficace con sanzioni penali e la guerra contro chi delocalizza, dopo aver beneficiato di sovvenzioni pubbliche.
- by Alex