Tassazione TFS Dipendenti Pubblici: agevolazioni?
FONTE: https://www.lentepubblica.it/
Tassazione TFS, i dipendenti pubblici beneficiano di agevolazioni? E in quali casi? Ecco alcune utili indicazioni.
Ancora oggi i lavoratori del pubblico impiego possono beneficiare della tassazione del TFS nella misura più favorevole prevista prima dell’introduzione dei nuovi scaglioni irpef in vigore dal 1° gennaio 2007. L’articolo 1, co. 9 della legge 296/2006 riconosce, infatti, anche nei confronti del personale del pubblico impiego in regime di TFS (cioè il personale a tempo indeterminato assunto entro il 31 dicembre 2000 ed il personale non contrattualizzato come i militari, la magistratura, i professori universitari) una clausola di salvaguardia consistente nella possibilità di mantenere in vigore il vecchio e più favorevole criterio di tassazione vigente al 31 dicembre 2006 anche con riferimento alla buonuscita maturata successivamente alla predetta data. Nonostante diversi tentativi maldestri di abrogarla la clausola di salvaguardia è riuscita a giungere sino ai giorni nostri.
Come si intuisce la clausola consente di tassare il Tfs con le aliquote e gli scaglioni in vigore nel 2006 se più favorevoli rispetto a quelli in vigore nell’anno di maturazione del diritto alla percezione del Tfs stesso. La norma si traduce, pertanto, in un vantaggio fiscale per i redditi più bassi, perché fino al 31 dicembre 2006 i redditi fino a 26mila euro erano sottoposti ad un prelievo fiscale del 23 per cento. Dal 1° gennaio 2007, invece, il prelievo del 23% è stato mantenuto sui redditi fino a 15mila euro mentre su quelli superiori alla predetta cifra e sino a 28mila il prelievo è schizzato al 27 per cento.
Anche il raffronto con gli scaglioni successivi è diverso. Se sino al 2006 i redditi compresi tra 26mila euro e 33.500 euro pagavano un’aliquota fiscale del 33%, del 39% per la quota superiore a 33.500 e sino a 100 mila e del 41% per quella superiore a 100mila la normativa oggi in vigore prevede un’aliquota del 38% per la fascia di reddito superiore ai 28mila e sino a 55mila euro che passa al 41% per la quota che splafona i 55mila e sino a 75mila e del 43% per quella eccedente i 75mila euro.
In definitiva la clausola consente un risparmio fiscale praticamente per tutti i dipendenti pubblici in regime di TFS in proporzione però superiore per i redditi che si collocano tra i 15 e i 26 mila euro annui. L’agevolazione è stimolata anche dal fatto che il regime del TFS prevede una serie di abbattimenti e riduzioni dell’imponibile fiscale che tengono il reddito di riferimento, cioè quel reddito “virtuale” sul quale si applica la tassazione per scaglioni, spesso su importi inferiori a 26mila euro. Si comprende, pertanto, come per molti dipendenti pubblici la norma consente un risparmio anche di migliaia di euro rispetto ad una tassazione con le aliquote vigenti.
Donne vittime di violenza, il congedo previsto dal nuovo Ccnl
FONTE: https://www.nurse24.it
Tra le novità in materia di permessi retribuiti per il dipendente pubblico, il nuovo Ccnl indica il congedo per le donne vittime di violenza. La lavoratrice può scegliere di fruire del congedo su base oraria o per l’intera giornata. Se decide di fruire su base oraria, questo avviene in misura pari alla metà dell’orario medio giornaliero del mese immediatamente precedente a quello in cui ha inizio il congedo.
Congedo per le donne vittime di violenza, come funziona
Il congedo per le donne vittime di violenza è una delle novità salienti tra i permessi retribuiti
La lavoratrice, inserita nel percorso della protezione per violenza, ha diritto, previa certificazione, ad astenersi dal lavoro per un periodo massimo di 90 giorni lavorativi, da fruire nell’arco di tre anni a partire dal percorso di protezione.
Salvo i casi di oggettiva impossibilità, la dipendente che vuole fruire del congedo deve presentare richiesta scritta al datore di lavoro, corredata della certificazione che attesta l’inserimento nel percorso di protezione, con un preavviso non inferiore a sette giorni di calendario e con l’indicazione dell’inizio e della fine del relativo periodo.
Alla lavoratrice spetta lo stesso trattamento economico che spetta alla lavoratrice durante il congedo di maternità e il periodo fruito matura i contributi ai fini dell’anzianità di servizio, non riduce le ferie ed è utile per la tredicesima mensilità.
La lavoratrice può scegliere di fruire del congedo su base oraria o per l’intera giornata. Se decide di fruire su base oraria, questo avviene in misura pari alla metà dell’orario medio giornaliero del mese immediatamente precedente a quello in cui ha inizio il congedo.
La dipendente ha inoltre diritto alla trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale e può tornare a tempo pieno su richiesta della lavoratrice stessa.
La dipendente vittima di violenza di genere inserita in specifici percorsi di protezione può presentare domanda di trasferimento ad altra amministrazione pubblica ubicata in un comune diverso da quello di residenza, dopo averne fatto comunicazione all'Azienda. Entro quindici giorni dalla comunicazione l'Azienda di appartenenza deve disporre il trasferimento presso l'amministrazione indicata dalla dipendente, dove ci siano posti vacanti corrispondenti alla sua categoria.
Questi congedi possono essere cumulati con l’aspettativa per motivi personali per un periodo di trenta giorni.
Le Aziende, a meno che non abbiano specifiche esigenze di servizio, agevolano la concessione dell’aspettativa.
La dipendente, al termine del percorso di protezione e dopo il rientro al lavoro, può chiedere di essere esonerata dai turni disagiati, per un periodo di un anno.
Impugnativa di licenziamento, l’interpretazione della cassazione
Fonte: http://www.diritto-lavoro.com
La Corte Suprema di Cassazione, con la ordinanza n. 14212 del 2018, ha reso il seguente principio di diritto in tema di impugnativa di licenziamento: “L’art. 6 della legge n. 604 del 1966 deve essere interpretato nel senso che l’ impugnativa di cui al comma 1 è soddisfatta con l’esercizio, nel termine di giorni 60, dell’azione ex articolo 28 della legge n. 300 del 1970 avverso il licenziamento del dipendente”. (Dal Quotidiano del Diritto del Sole 24 Ore del 5.6.2018).
A norma dell’art. 6 della legge n. 604/1966, l’ impugnativa di licenziamento deve essere effettuata, a pena di decadenza, “entro sessanta giorni dalla ricezione della sua comunicazione in forma scritta ovvero dalla comunicazione, anch’essa in forma scritta, dei motivi, ove non contestuale, con qualsiasi atto scritto, anche extragiudiziale idoneo a rendere nota la volontà del lavoratore anche attraverso l’intervento dell’organizzazione sindacale diretto ad impugnare il licenziamento scritto”.
In pratica, ad avviso della Corte Suprema, la possibilità di impugnare il licenziamento attraverso l’organizzazione sindacale (qualunque associazione e non solo quella cui il lavoratore abbia in precedenza aderito) non ha altro significato che quello di conferire a tale associazione sindacale il potere di rappresentare ex lege il lavoratore, equiparando l’impugnazione effettuata dall’organizzazione sindacale, indipendentemente da un mandato o da una ratifica successiva, a quella compiuta direttamente dall’interessato.
Ma vediamo insieme i fatti di causa di cui alla ordinanza 14212/2018.
Il Tribunale di Civitavecchia, con sentenza n. 36 del 2015, dichiarava inammissibile la domanda di impugnativa del licenziamento intimato a … dalla … spa, in accoglimento della preliminare eccezione di decadenza ex art. 6 legge n. 604 del 1966;
la Corte di Appello di Roma, investita con gravame di … con sentenza n. 2707 del 2016, rigettava l’appello;
per quanto qui rileva, la Corte distrettuale giudicava tardiva l’impugnativa del recesso, perché proposta unicamente con il ricorso introduttivo di primo grado, ben oltre il termine di cui all’art. 6 della legge n. 604 del 1966 (60 giorni dalla sua comunicazione);
osservava, in particolare, che nessun rilievo aveva avuto, a detti fini, l’azione proposta dal sindacato, in relazione al medesimo atto di recesso, ai sensi dell’art. 28 della legge n. 300 del 1970, in quanto autonoma e posta a tutela di interessi diversi; né il lavoratore aveva spiegato intervento adesivo nel processo attivato dall’organo collettivo o conferito al sindacato una procura speciale per la tutela anche dell’interesse individuale;
Avverso tale decisione proponeva ricorso per cassazione il lavoratore articolato su sette motivi, che veniva accolto dalla Corte Suprema con il principio di diritto sopra enunciato.
Accesso agli atti: niente riservatezza sull'struttoria dell'Ispettorato con audizione di ex lavoratori
FONTE:QPA
Per il TAR Toscana è illegittimo il diniego di accesso se gli informatori degli Ispettori non sono piú dipendenti della società.
Ad una società toscana veniva notificato un verbale di accertamento del locale Ispettorato Territoriale del Lavoro, relativo ad accertamenti eseguiti dallo stesso circa la regolarità della posizione lavorativa e contributiva di alcuni ex collaboratori (che avevano svolto in passato prestazioni lavorative presso le sedi operative della società medesima) e nel quale venivano contestate alcune presunte violazioni della normativa in materia di lavoro.
La società presentava istanza di accesso agli atti ai sensi della L. 241 del 1990, con specifica richiesta di visionare ed ottenere copia di tutti i documenti e degli atti di istruttoria menzionati nel verbale dell’Ispettorato o comunque posti a base delle determinazioni in esso contenute.
Essendosi protratto il silenzio della P.A. per oltre 30 giorni, sull’istanza si formava il silenzio diniego che la società impugnava con ricorso al TAR.
Resisteva al giudizio l’Amministrazione la cui difesa era tutta impostata sul disposto dell’art. 2 del D.M. 4 novembre 1994 n. 757 in base al quale sono sottratti all’accesso, in quanto coperti da esigenze di riservatezza, i “documenti contenenti notizie acquisite nel corso delle attività ispettive, quando dalla loro divulgazione possano derivare azioni discriminatorie o indebite pressioni o pregiudizi a carico di lavoratori o di terzi” (lett. c) nonché quelli “..riguardanti il lavoratore e contenenti notizie sulla sua situazione familiare, sanitaria, professionale, finanziaria, sindacale o di altra natura, sempreché dalla loro conoscenza possa derivare effettivo pregiudizio al diritto alla riservatezza”.
Il collegio adito, tuttavia, osservava, che la predetta norma non pone un divieto assoluto e generalizzato di accesso ai verbali ispettivi ed ai presupposti atti istruttori, ma prevede un limite alla diretta conoscibilità delle notizie acquisite nel corso dell’attività ispettiva, quando dalla loro divulgazione possano derivare azioni discriminatorie o indebite pressioni o pregiudizi a carico dei lavoratori o di terzi, con la conseguenza che la sua applicazione presuppone un effettivo pericolo di pregiudizio per i lavoratori o per i terzi, sulla base di elementi di fatto concreti, e non per presunzione assoluta; pericolo che ai sensi dell’art. 3 del medesimo decreto deve ritenersi insussistente allorché il rapporto di lavoro dei soggetti che hanno reso le dichiarazioni riportate nel verbale venga a cessare: così come era accaduto nel caso di specie atteso che i lavoratori ascoltati nell’istruttoria, svolta dagli ispettori non erano più, oramai, legati da alcun vincolo contrattuale con la società.
Il TAR Toscana, I Sez., con la sentenza del 30 maggio 2018 n. 770, nell’accogliere il ricorso, ha stabilito allora che nelle predette ipotesi, non essendovi esigenze di riservatezza da tutelare mediante la deroga all’obbligo di trasparenza, il diritto di accesso si riespande nella sua pienezza con la conseguenza che l’interesse che giustifica l’istanza non deve necessariamente basarsi su una specifica esigenza difensiva.
Pensioni, quota 100 e stop Ape: ecco chi ci perde e chi ci guadagna
Fonte:ilmessaggero
La riforma delle pensioni allo studio del Governo Lega Cinquestelle, a guardare le prime indiscrezioni sul dossier sul tavolo del Governo Conte, potrebbe avvantaggiare soprattutto i lavoratori più «forti» come gli uomini residenti al Nord e con impieghi più stabili mentre potrebbe portare a un'uscita più lontana nel tempo le donne e coloro che hanno avuto lunghi periodi di disoccupazione e cassa integrazione. Insomma: anziani disoccupati al palo e impiegati pubblici favoriti per l'uscita anticipata.
Secondo le prime indiscrezioni, in attesa che i progetti siano definiti nei dettagli, sembrerebbe possa essere accantonata l'esperienza dell'Ape social ma anche la pensione con 41 anni di contributi indipendentemente dall'età anagrafica prevista ora per i lavoratori precoci impegnati in attività gravose o per quelli e che pur contando su questo numero di anni di contributi ora sono disoccupati. In pratica si lavora a un'ipotesi di quota 100 con almeno 64 anni di età (e quindi almeno 36 di contributi) o un'uscita con 41 anni e mezzo di contributi escludendo dal computo però i contributi figurativi (includendo al massimo due, tre anni). Ecco alcuni esempi di chi potrebbe guadagnarci o chi perderci nel 2019 rispetto alla situazione attuale:
IMPIEGATO PUBBLICO NATO NEL GENNAIO 1955 CHE LAVORA DALL'82: CI GUADAGNA, potrebbe andare in pensione nel gennaio 2019, a 64 anni con 37 anni di contributi. Con le regole attuali resterebbe invece al lavoro fino al 2022, uscendo dopo i 67 anni di età dato che dovrebbe esserci un nuovo scatto per l'aspettativa di vita.
DONNA ORA DISOCCUPATA NATA NEL GENNAIO 1956 CHE HA LAVORATO DAL 1985 al 2015: CI PERDE. Se l'Ape social continuasse nel 2019 potrebbe chiedere a 63 anni e 5 mesi di avere il sussidio dato che è ha esaurito da oltre tre mesi la Naspi, è disoccupata e ha almeno 30 anni di contributi. Le madri, al momento, hanno poi un maggiore 'scontò sui contributi per ogni figlio: un anno per figlio con un massimo di due anni. Con le nuove regole in arrivo, non avendo i contributi necessari alla quota 100 potrebbe dover aspettare - se non ci sarà una clausola di salvaguardia ad hoc - i 67 anni andando quindi nel 2023 (a questo andrà aggiunta la nuova aspettativa di vita nel 2021 e nel 2023).
LAVORATORE PRECOCE NATO ALL'INIZIO DEL 1960 CHE LAVORA DA 1978 CON LUNGHI PERIODI DI CASSA INTEGRAZIONE, impegnato in attività GRAVOSE. CI PERDE: Con le regole attuali uscirebbe nel 2019 con 41 anni e cinque mesi di contributi (l'anno prossimo scatta l'aumento di cinque mesi legato all'aspettativa di vita). Con le nuove regole dai 41 anni e mezzo di contributi necessari verrebbero esclusi alcuni anni di contributi figurativi previsti dalle regole sulla cassa integrazione e dovrebbe aspettare di avere 43 anni e tre mesi di contributi e uscire con la pensione anticipata.
LAVORATORE NATO NEL 1956 IMPIEGATO IN UNA GRANDE AZIENDA DAL 1978 SENZA AVER MAI AVUTO PERIODI DI CONTRIBUZIONE FIGURATIVA: CI GUADAGNA; con le nuove regole andrebbe in pensione nel 2019 con 41 anni e mezzo di contributi. Con le regole attuale dovrebbe aspettare di raggiungere almeno i 43 anni e tre mesi di contributi uscendo nel 2021 (e subendo probabilmente un nuovo aumento dell'aspettativa di vita).
PENSIONATO «D'ORO»: CI PERDE, MA NON È DETTO: se scattano i tagli alle pensioni superiori ai 5.000 euro netti (circa 8.500 euro lordi) per la parte del trattamento non legata ai contributi versati ci perde circa il 5-6% dell'assegno. Ma se in contemporanea viene introdotta la flat tax facendo parte della fascia reddituale più alta ci guadagna comunque con un vantaggio che potrebbe superare il 28% dell'importo netto attuale.
Da PensioniOggi:
Quota 100, Patriarca: la proposta della Lega costa 9 miliardi
Secondo l'ex consulente di Palazzo Chigi la flessibilità in uscita targata M5S-Lega avrà un costo ben superiore ai 5 miliardi preventivati dal Governo Conte.
E' scontro sui costi per sostenere la flessibilità in uscita del Governo Lega-Cinquestelle. Al momento le prime bozze a cui ha lavorato Alberto Brambilla, consulente della Lega, ipotizzano l'introduzione della quota 100 tra età e contributi con un'età minima di 64 anni e 36 di contributi e la possibilità di andare in pensione a qualsiasi età avendo 41 anni e mezzo di contributi, requisiti però che dovranno tenere conto di molti paletti, tra cui un limite ai contributi figurativi, l'impossibilità di cumulo della contribuzione mista, e una penalità sull'assegno. Questa proposta dovrebbe costare cinque miliardi come indicato nel contratto su cui si basa l'intesa tra Lega e Cinquestelle.
"Le nostre misure - spiega Alberto Brambilla, esperto di previdenza e estensore della proposta leghista - costano anche meno di cinque miliardi. Pensiamo a una quota 100 con 64 anni almeno di età e l'utilizzo al massimo di due anni di contributi figurativi. Saranno considerate la maternità e l'anno di militare ma penso che per quanto riguarda la cassa integrazione, la disoccupazione, la malattia, i permessi e le altre questioni vadano considerati al massimo due anni di contribuzione figurativa". Al momento dell'accesso anticipato - ha spiegato - anche nel caso che il pensionando sia nel sistema retributivo l'assegno andrà ricalcolato per la parte tra il 1996 e il 2012 con il contributivo. "Adesso - sottolinea - il sistema è disarticolato. Si può andare in pensione con 66 anni e sette mesi avendo solo 20 anni di contributi e non si può andare a 64 avendo lavorato per 36 anni o 41. Dovremmo cercare di riequilibrarlo senza scassare i conti. Penso invece che l'Ape sociale e l'aumento della quattordicesima li abbiano scassati".
Patriarca: La proposta può costare sino a 12 miliardi
Di diverso avviso è Stefano Patriarca, esperto di previdenza, a lungo consulente di Palazzo Chigi nella passata legislatura che ha contribuito all'attuazione dell'ape sociale e di quello volontario. "L'accesso alla pensione con quota 100 e un'età minima di 64 anni insieme alla possibilità di andare a riposo con 41 anni e mezzo di contributi - sottolinea - potrebbe costare 12 miliardi l'anno e la cifra potrebbe scendere di circa due-tre miliardi se si introducessero anche il ricalcolo contributivo e le limitazioni ai contributi figurativi.
"Oltre a introdurre elementi di iniquità rispetto ad oggi, perché il parziale ritocco della Fornero favorirebbe sostanzialmente le posizioni migliori del mercato del lavoro - prosegue Patriarca - il ricalcolo contributivo sull'importo di chi esce con quota 100 fatto sugli anni dal 1996 al 2012 e la limitazione del calcolo dei contributi figurativi porterebbe ad un minor numero di uscite con una minore spesa intorno a 500-800 milioni mentre la limitazione dei contributi figurativi per chi esce con 41 anni e mezzo di contributi indipendentemente dall'età potrebbe a una riduzione del costo aggiuntivo complessivo attorno a 1,5-2 miliardi.
In pratica per fare le modifiche promesse alla riforma Fornero peraltro solo per le posizioni migliori del mercato del lavoro - conclude - sarebbero comunque necessari 9-10 miliardi già dal primo anno". E nel calcolo complessivo bisognerà tenere conto che già oggi nonostante si possa uscire solo con 42 anni e 10 mesi di contributi (41,10 se donne) su 374.000 pensioni complessive tra vecchiaia e anzianità liquidate nel 2017 il 60% è stato liquidato a un'età anticipata rispetto a quella di vecchiaia. E' chiaro che abbassando il paletto la percentuale delle anticipate potrebbe salire molto rapidamente.
Fornero: proposte lontano dalle promesse elettorali
Per l'ex ministro del Lavoro Elsa Fornero, autrice della riforma della previdenza messa in discussione, le proposte sono "lontane dalle promesse" fatte in campagna elettorale, che ipotizzavano la cancellazione della legge Fornero, ma comunque "poco responsabili" perchè spostano risorse ancora sulla parte anziana della popolazione dimenticando quella più giovane che più è stata penalizzata negli anni della crisi.
Dubbi sono stati avanzati anche dall'ex ministro del Lavoro, Cesare Damiano, ma dal lato opposto: "Quota 100 va sostenuta, ma a condizione che parta almeno dai 63 anni, che l’Ape sociale non venga abolita, ma resa strutturale, e che venga messa in cantiere la nona e ultima salvaguardia degli esodati”. Altrimenti c’è il rischio che pochi lavoratori facciano passi avanti e molti facciano passi indietro”.
Riforma Pensioni, Ipotesi Quota 100 con minimo 64 anni di età
Il Governo studia come allargare le maglie della Legge Fornero. Obiettivo la prossima legge di bilancio. Ma già fioccano paletti e condizioni che a molti non piaceranno.
L'avvio della nuova legislatura segna la riapertura del cantiere sulle pensioni con l'obiettivo di rimettere mano alla legge Fornero in tempi rapidi. Il timing è praticamente segnato dalla scadenza dell'ape sociale (il 31 dicembre 2018) quando si dovrà decidere se prorogare o meno la misura di sostegno per le categorie più deboli (disoccupati, caregivers, invalidi e gravosi): se il nuovo esecutivo deciderà di sopprimerlo dal 1° gennaio 2019 dovrà necessariamente far partire la flessibilità in uscita basata sul programma siglato da M5S e Lega. Va anticipato subito che la partita è appena iniziata e, quindi, ci saranno molti ritocchi (soprattutto di natura politica) da qui alla fine dell'anno quando la riforma dovrebbe trovare la via della Legge di Bilancio.
Il progetto quota "100"
L'altro giorno Antonio Brambilla, consulente della Lega che ha partecipato alla redazione del programma elettorale leghista, dalle pagine del Quotidiano de La Repubblica ha anticipato i dettagli che saranno portati sul tavolo di Palazzo Chigi. I canali di uscita saranno due. Il primo, la cosiddetta quota 100, richiederà che l'interessato abbia maturato contemporaneamente un requisito di età e uno di contribuzione, la cui somma deve appunto dare 100. Per frenare le uscite il programma prevede però un requisito minimo di età a 64 anni. La combinazione possibile sarebbe, pertanto, 64 e 36 di contributi (resta in pista forse anche la combinazione 65 e 35, considerando che 35 anni di contribuzione era il limite minimo sempre richiesto anche per la pensione di anzianita' ante-Fornero). Sarebbero fuori gioco, invece, le combinazioni 60 e 40, 61 e 39, 62 e 38 o 63 e 37 di contributi.
Possibile anche un tetto alla valorizzazione della contribuzione figurativa: 2 o 3 anni in tutto. Come dire che chi ha lunghi periodi di disoccupazione indennizzata, integrazioni salariali, mobilità e congedi rischierebbe di non poter centrare il requisito contributivo minimo richiesto (36 anni). A rischio pure la possibilità di cumulare la contribuzione mista, cioè quella maturata in diverse gestioni assicurative, per raggiungere i nuovi requisiti contributivi.
Come si intuisce se alla misura venisse abbinata l'abolizione dell'ape sociale (il nuovo esecutivo non ha indicato la volontà di proseguire la sperimentazione) il progetto delle quote rischia, quindi, di risultare peggiorativo per coloro che attualmente contano sulla possibilità di conseguire l'assegno ponte già con 63 anni e 30/36 anni di contributi. Su questo fronte sarebbe, quindi, opportuno un supplemento di indagine per non vanificare quei passi avanti raggiunti con l'accordo tra Governo e Sindacati dello settembre 2016.
Il tetto a 41 anni di versamenti
C'è poi l'uscita a 41 anni di contributi a prescindere dall'età anagrafica (dagli attuali 41 anni e 10 mesi per le donne e 42 anni e 10 mesi per gli uomini) generalizzando così il beneficio previsto dal 1° maggio 2017 in favore solo di alcune categorie di lavoratori. Dal 2019 però il requisito contributivo potrebbe essere aumentato subito a 41 anni e 5 mesi per via della speranza di vita. Resterebbero in vigore le agevolazioni per gli usuranti basate sulle quote più favorevoli (61 anni e 7 mesi e 35/36 di contributi) che forse potrebbero accogliere parte dei lavori gravosi attualmente in perimetro ape social così come è praticamente certa la proroga dell'opzione donna. Non ci sarebbero modifiche ai requisiti per la pensione di vecchiaia che resterebbero così ancorati a 66 anni e 7 mesi (67 anni dal 2019) con un minimo di 20 anni di contributi; nè per l'ape volontario che continuerebbe a funzionare almeno sino al 31 dicembre 2019.
Altra partita delicatissima: l'esecutivo dovrà chiarire se sarà introdotta una qualche forma di penalità sulla misura della pensione per i nuovi quotisti. La proposta di Brambilla prevede, infatti, un ricalcolo in chiave contributiva dell'assegno anche se limitato alle sole anzianità maturate dopo il 1996 (pertanto valido per i soli assicurati in possesso di almeno 18 anni di contributi al 31.12.1995). Sullo sfondo resta poi la questione degli adeguamenti alla speranza di vita istat (cinque mesi in più dal 2019) con la Lega che intende mantenerli e i pentastellati chi li vorrebbero invece bloccare; la pensione di cittadinanza che dovrebbe aiutare i pensionati più poveri con un assegno minimo di 780 euro al mese e l'irrobustimento dei prepensionamenti finanziati dalle imprese. Insomma la carne al fuoco e tanta e quasi sicuramente il puzzle non si comporrà in tempi brevi.
Pensioni, Le maggiorazioni contributive riducono la pensione di inabilità
Ad essere penalizzati sono soprattutto i lavoratori che conteggiano supervalutazioni di servizio nel sistema contributivo e poi chiedono la pensione di inabilità. Ecco perchè.
Il graduale passaggio al sistema contributivo, avvenuto ormai per tutti i lavoratori a partire dal 1° gennaio 2012, ha prodotto alcune importanti cambiamenti nel calcolo dell'assegno pensionistico. Una delle questioni che appare utile segnalare (o meglio denunciare) riguarda i riflessi circa le modalità di calcolo della pensione di inabilità previdenziale (di cui alla legge 222/1984 come riformata dall'articolo 1, co. 15 della legge 335/1995) per quei lavoratori che conteggiano aumenti di servizio nel sistema contributivo (che dal 1997 non possono superare i cinque anni).
Per il calcolo della misura della pensione di inabilità il nostro ordinamento riconosce, infatti, una maggiorazione dell'anzianità contributiva complessiva non superiore a 40 anni, aggiungendo al montante individuale posseduto al momento della decorrenza della prestazione, una ulteriore quota di contribuzione riferita al periodo mancante fino a raggiungimento del sessantesimo anno di età. In sostanza all'invalido viene riconosciuta una maggiorazione contributiva pari alla distanza che lo separa dall'età di 60 anni (entro però un tetto di 40 anni di contributi).
Si prenda ad esempio un lavoratore con 45 anni di età e 15 anni di contributi che abbia perso in modo permanente la capacità lavorativa. Ebbene in tal caso a questi spetterà sulla pensione un beneficio contributivo di 15 anni pari cioè all'età che lo separa dal 60° anno di età (60-45) che gli porterà una pensione calcolata virtualmente su 30 anni di contributi anziché 15, gli anni effettivamente versati. Di converso se il lavoratore avesse invece già 60 anni o 40 anni di contributi non avrebbe diritto ad alcun beneficio contributivo.
Nel raggiungimento del limite dei 40 anni di contributi, tuttavia, vanno considerati anche gli aumenti di servizio che spettano al soggetto in funzione della tipologia dell'attività svolta. Così un invalido che gode dell'aumento dell'anzianità contributiva di due mesi per ogni di lavoro svolto (ex art. 80. co. 2 della legge 388/2000) vedrà ridursi l'importo del bonus di inabilità perchè aumentando l'anzianità contributiva diminuisce la distanza rispetto al limite dei 40 anni di contributi. Questo effetto con il sistema retributivo era compensato dalla circostanza che la supervalutazione del servizio determinava un incremento della misura della pensione (sulla quale poi si applicava il bonus di inabilità). Con il passaggio al sistema contributivo, invece, le supervalutazioni non fanno più aumentare la misura della pensione (sono utili solo al diritto) e, pertanto, diventano controproducenti in sede di conseguimento della pensione di inabilità.
Un esempio
Gli esempi sottostanti riguardano gli effetti di questo meccanismo su tre lavoratori tutti con 45 anni di età e 30 anni di contributi da lavoro effettivo e con una pensione di importo base pari a 20mila euro. Marco non ha mai fruito di aumenti di servizio mentre Francesco e Matteo hanno goduto di un aumento di cinque anni, il primo tutto nel sistema retributivo, il secondo tutto nel contributivo. Il bonus di inabilità sarà calcolato per Francesco e Matteo su un totale di 5 anni di contributi (40-35=5) mentre per Marco su un totale di 10 anni (40-30=10) e sarà pertanto più elevato. Per Francesco però la riduzione del bonus di inabilità viene compensata dall'incremento delle quote retributive della pensione (A e B) perchè l'aumento dell'anzianità contributiva derivante dalla supervalutazione incrementa anche la pensione. Cosicchè alla fine l'impatto è quasi neutro. Matteo, invece, è l'unico penalizzato perchè i suoi cinque anni di supervalutazione cadono nel sistema contributivo e quindi non determinano alcun incremento della misura della pensione. Però questi incidono comunque sul bonus di inabilità comprimendo così la pensione finale di inabilità rispetto a Marco e Francesco.
Si giunge così all'assurdo che con il sistema contributivo un lavoratore invalido che ha ottenuto il beneficio della legge 388/2000 risulti danneggiato se poi dovesse chiedere la pensione di inabilità rispetto ad uno che non ha mai chiesto il suddetto beneficio. A questo problema sono esposti anche i lavoratori del comparto difesa e sicurezza che, come noto, hanno specifici aumenti di servizio legati alle condizioni del lavoro svolto. Si tratta di una questione che dovrebbe essere esaminata dal legislatore.
Riforma Pensioni, Conte conferma il taglio delle pensioni d'oro e dei vitalizi
Lo ha detto il Presidente del Consiglio dei Ministri in Senato durante la richiesta del voto di fiducia. Nel mirino del Governo gli assegni d'oro non giustificati dai contributi versati e i vitalizi degli ex parlamentari.
Stop ai vitalizi dei politici e alle pensioni d'oro e introduzione di misure sociali per garantire una maggiore equità, con al primo posto il reddito e la pensione di cittadinanza. La relazione programmatica del nuovo Governo guidato da Giuseppe Conte in Senato oggi per raccogliere il voto di fiducia mette in ordine i punti salienti, i binari dell'azione dei prossimi lustri.
Anche se il documento è stato deludente sul fronte di come superare la Legge Fornero (sulla quale evidentemente è prevalsa la cautela in attesa di un supplemento di istruttoria) ai primi posti dell'azione del nuovo Governo ci sarà la lotta ai privilegi della politica e agli sprechi. "Occorre operare un taglio alle pensioni e ai vitalizi dei parlamentari, dei consiglieri regionali e dei dipendenti degli organi costituzionali, introducendo anche per essi il sistema previdenziale dei normali pensionati" ha detto Conte in Senato raccogliendo gli applausi dei senatori Leghisti e Pentastellati.
Stop alle pensioni d'oro
Il neo Premier si è scagliato poi sulle pensioni d'oro non giustificate dai contributi versati confermando la volontà politica, già contenuta nel programma di Governo di M5S e Lega, di procedere ad un taglio. "Le cosiddette pensioni d'oro sono un altro esempio di ingiustificato privilegio che va contrastato. Interverremo sugli assegni superiori ai 5.000 euro netti mensili, nella parte non coperta dai contributi versati" ha detto Conte. "Se i comuni cittadini affrontano quotidianamente mille difficoltà e umiliazioni perché non hanno un lavoro, hanno una pensione al di sotto della soglia della dignità, lavorano guadagnando un salario irrisorio, non è tollerabile che la classe politica non ne tragga le dovute conseguenze in ordine al proprio trattamento economico. È una questione che deve interessare tutti, perché, diversamente, si rompe il patto di fiducia dei cittadini nei confronti delle proprie istituzioni" ha concluso Conte.
Conte: Faremo reddito e pensione di cittadinanza
Il Premier ha poi ribadito che il timone dell'esecutivo sarà incentrato sulla tutela dei diritti sociali dei meno abbienti. "L'obiettivo del Governo è assicurare un sostegno al reddito a favore delle famiglie più colpite dal disagio socioeconomico" confermando la volontà di introdurre il reddito di cittadinanza. I tempi di erogazione , tuttavia, non saranno immediati in quanto prima dovranno essere rafforzati i centri per l'impiego. "Il beneficio verrà commisurato alla composizione del nucleo familiare e sarà condizionato alla formazione professionale e al reinserimento lavorativo. Ci proponiamo, in una prima fase, di rafforzare i centri per l'impiego in modo da sollecitare l'incontro tra domanda e offerta di lavoro con la massima efficienza e celerità possibili. Nella seconda fase verrà poi erogato il sostegno economico vero e proprio" ha detto Conte. "Ci premureremo di intervenire anche a favore dei pensionati che non hanno un reddito sufficiente per vivere in modo dignitoso, introducendo una pensione di cittadinanza" ha concluso Conte.
Calcola l'assegno al nucleo familiare
Fonte:pensionioggi
Aggiornato lo strumento di PensioniOggi.it per determinare l'importo dell'assegno al nucleo familiare a partire dal 1° luglio 2018.
Come noto la generalità dei lavoratori dipendenti e i pensionati titolari di prestazioni economiche derivanti da lavoro dipendente hanno diritto all'assegno al nucleo familiare (ANF). L'assegno consiste in un trasferimento monetario unitario pagato direttamente dall'Inps o dal datore di lavoro rispettivamente al pensionato o al lavoratore in attività il cui importo risulta legato alla composizione del nucleo familiare e del reddito complessivamente percepito dai sui componenti. Scopo dell'ANF è integrare il reddito da lavoro dipendente o da pensione della famiglia in presenza di figli minorenni o maggiorenni disabili o altri componenti (tra cui fratelli, sorelle o nipoti minorenni).
Essendo l'importo strettamente legato al concetto di nucleo familiare è necessario avere ben chiari quali componenti possono essere inseriti o meno nel nucleo. Secondo quanto dispone l'articolo 2, co. 6 del Dl 69/1988 convertito con legge 153/1988 sono da considerare appartenenti allo stesso nucleo familiare oltre il richiedente la prestazione: a) il coniuge purchè non sia legalmente ed effettivamente separato; b) i figli di età inferiore a 18 anni compiuti oppure, senza limite di età qualora si trovino, a causa di infermità o difetto fisico o mentale, nell'assoluta e permanente impossibilità di dedicarsi ad un proficuo lavoro; c) i fratelli, le sorelle ed i nipoti di età inferiore a 18 anni compiuti ovvero oppure, senza limite di età qualora si trovino, a causa di infermità o difetto fisico o mentale, nell'assoluta e permanente impossibilità di dedicarsi ad un proficuo lavoro, nel caso in cui essi siano orfani di entrambi i genitori e non abbiano conseguito il diritto a pensione ai superstiti.
In presenza di nuclei familiari con più di figli tre figli o equiparati di età inferiore ai 26 anni compiuti, ai fini della determinazione dell'assegno rilevano, al pari dei figli minori, anche i figli di età superiore a 18 anni compiuti e inferiore a 21 anni compiuti purché studenti o apprendisti (art. 1, co. 11, lett. d), legge 296/2006). Il nucleo parentale rilevante ai fini del riconoscimento dell'assegno al nucleo familiare può essere composto anche da una sola persona nei casi in cui la stessa sia titolare di pensione ai superstiti da lavoro dipendente ed abbia un'età inferiore a 18 anni compiuti ovvero si trovi, a causa di infermità o difetto fisico o mentale, nell'assoluta e permanente impossibilità di dedicarsi a un proficuo lavoro.
Il Tool seguente, realizzato da PensioniOggi, consente rapidamente di verificare l'importo spettante. Per l'utilizzo è sufficiente indicare il periodo temporale (da luglio a giugno di ciascun anno), la tipologia di nucleo familiare (con figli, orfanile o senza figli) ed il reddito complessivo degli appartenenti al nucleo familiare relativo all'anno solare precedente a quello di godimento.
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Rifinanziato il bonus sulle assunzioni dei disabili. Con decreto 24 maggio 2018, pubblicato sul sito internet del ministero del lavoro, sezione pubblicità legale, sono stati trasferiti all'Inps altri 10 mln di euro per il riconoscimento dello sgravio contributivo (35 o 70%), di tre anni, sulle assunzioni a tempo indeterminato relative all'anno 2017. Visto l'elevato ricorso agli incentivi, i nuovi fondi vanno ad aggiungersi ai 15 mln stanziati in origine dal decreto 16 marzo 2017 e e ai successivi 58 mln stanziati con il decreto 29 settembre 2017.
Come noto l'articolo 13 della legge 68/1999 modificata di recente dall'articolo 10 del decreto legislativo 151/2015 (Jobs Act) ha rivisto il perimetro di applicazione degli sgravi contributivi per i datori di lavoro. Dal 1 ° gennaio 2016 i datori che assumono lavoratori in condizione di disabilità possono fruire di un incentivo economico fino al 70% della retribuzione da conguagliare con i contributi dovuti all'Inps.
L'incentivo spetta a tutti i datori di lavoro, inclusi professionisti, anche se l'assunzione avviene per obbligo di legge (dal 2018 si rammenta che anche i datori di lavoro tra 15 e 35 dipendenti devono procedere all'assunzione di un disabile) per le assunzioni a tempo indeterminato e per le trasformazioni a tempo indeterminato di rapporti a termine, anche a tempo parziale, dal 1 ° gennaio.
Beneficiari
L’incentivo può essere fruito per l’assunzione delle seguenti categorie di lavoratori: 1) lavoratori disabili che abbiano una riduzione della capacità lavorativa superiore al 79 per cento o minorazioni ascritte dalla prima alla terza categoria di cui alle tabelle annesse al testo unico delle norme in materia di pensioni di guerra, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 23 dicembre 1978, n. 915, e successive modificazioni; 2) lavoratori disabili che abbiano una riduzione della capacità lavorativa compresa tra il 67 per cento e il 79 per cento o minorazioni ascritte dalla quarta alla sesta categoria di cui alle tabelle annesse al testo unico delle norme in materia di pensioni di guerra, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 23 dicembre 1978, n. 915, e successive modificazioni; 3) lavoratori con disabilità intellettiva e psichica che comporti una riduzione della capacità lavorativa superiore al 45 per cento.
Rapporti incentivati. L’incentivo spetta per le assunzioni a tempo indeterminato e per le trasformazioni a tempo indeterminato di un rapporto a termine, anche a tempo parziale, decorrenti dal 1° gennaio 2016. Per i lavoratori con disabilità intellettiva e psichica che comporti una riduzione della capacità lavorativa superiore al 45 per cento, inoltre, l’incentivo può essere riconosciuto - per tutta la durata del contratto - anche per le assunzioni a tempo determinato, purché tali rapporti abbiano una durata non inferiore a dodici mesi.
Misura e durata dell’incentivo. La misura del beneficio varia in base alle caratteristiche del lavoratore assunto e del rapporto di lavoro instaurato. In particolare per i lavoratori disabili assunti a tempo indeterminato che abbiano una riduzione della capacità lavorativa superiore al 79 per cento o minorazioni ascritte dalla prima alla terza categoria di cui alle tabelle annesse al testo unico delle norme in materia di pensioni di guerra, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 23 dicembre 1978, n. 915 e successive modificazioni, l’incentivo è pari al 70 per cento della retribuzione mensile lorda imponibile ai fini previdenziali; per i lavoratori disabili che abbiano una riduzione della capacità lavorativa compresa tra il 67 per cento e il 79 per cento o minorazioni ascritte dalla quarta alla sesta categoria di cui alle tabelle annesse al testo unico delle norme in materia di pensioni di guerra, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 23 dicembre 1978, n. 915 e successive modificazioni, la misura dell’incentivo è, invece, pari al 35 per cento della retribuzione mensile lorda imponibile ai fini previdenziali; per i lavoratori con disabilità intellettiva e psichica che comporti una riduzione della capacità lavorativa superiore al 45 per cento, l’incentivo è pari al 70 per cento della retribuzione mensile lorda imponibile ai fini previdenziali.
La durata dell'incentivo, di regola, è fissata per 36 mesi ma può salire sino a 60 mesi per l’assunzione a tempo indeterminato di lavoratori con disabilità intellettiva e psichica che comporti una riduzione della capacità lavorativa superiore al 45 per cento. Per tale categoria di lavoratori nelle ipotesi di assunzione a tempo determinato, l’incentivo spetta per tutta la durata del rapporto, fermo restando che, ai fini del riconoscimento dell’incentivo, questi deve avere una durata non inferiore a dodici mesi. In caso di assunzione o trasformazione a tempo indeterminato a scopo di somministrazione, l’incentivo non può essere fruito durante i periodi in cui il lavoratore non è somministrato ad alcun utilizzatore, né è commisurabile all’indennità di disponibilità; tali eventuali periodi non determinano, però, uno slittamento della scadenza del beneficio.
Al via la liquidazione delle pensioni con la maggiorazione contributiva per i lavoratori non vedenti. Ne da' notizia l'Inps con il messaggio hermes numero 2114/2018 pubblicato l'altro giorno dall'Istituto di Previdenza pubblico. La novità fa seguito alla novella contenuta nella legge di bilancio del 2017 (art. 1, co. 209, della legge n. 232 del 2016) che ha previsto con riferimento alle pensioni aventi decorrenza a partire dal 1° gennaio 2017 un incremento del coefficiente di trasformazione pari a 4 mesi per ogni anno di lavoro svolto presso le amministrazioni pubbliche o aziende private in condizione di risultare privo della vista.
Destinatari della norma ai sensi del coordinamento offerto dall'art. 2 della legge 28 marzo 1991, n. 120 sono tutti i lavoratori privi della vista cioè coloro che sono colpiti da cecità assoluta o hanno un residuo visivo non superiore ad un decimo in entrambi gli occhi con eventuale correzione. Il beneficio è pertanto corrisposto ai lavoratori dipendenti che facciano parte delle seguenti categorie: ciechi civili; ciechi invalidi per servizio; ciechi invalidi del lavoro; ciechi di guerra.
L'Inps comunica, pertanto, che con riferimento ai trattamenti pensionistici erogati nei confronti delle citate categorie con decorrenza dal 1° gennaio 2017, il coefficiente di trasformazione del montante contributivo (art. 1 comma 6, legge 335/95) deve essere calcolato aggiungendo all’ età posseduta al momento della decorrenza della pensione, 4 mesi per ogni anno di servizio effettivamente svolto nella condizione di privo di vista. Tale maggiorazione deve essere attribuita per i soli periodi che concorrono alla determinazione della quota contributiva. Dunque si applica con riferimento alla quota C della pensione per i destinatari di un sistema misto nonchè delle pensioni erogate interamente con il sistema contributivo. In caso di periodo di lavoro inferiore all’anno, l’incremento viene corrispondentemente ridotto: la frazione di anno deve essere determinata in mesi senza arrotondamento dei giorni.
L'istituto informa che l’incremento del coefficiente di trasformazione si aggiunge al beneficio (sempre 4 mesi per ogni anno di lavoro svolto) già riconosciuto ai fini del diritto e della misura della pensione per le quote calcolate con il sistema retributivo di cui all'articolo 9 all'articolo 9 della legge 113/1985. Da ciò deriva, ad esempio, che un lavoratore non vedente che va in pensione a 60 anni dopo aver svolto 12 anni di lavoro effettivo in concomitanza con la cecità potrà godere non solo di di quattro anni di anzianità contributiva aggiuntiva utile ai fini del diritto (e a fini della misura della parte retributiva della pensione) ma anche di un coefficiente di trasformazione del montante contributivo maggiorato di 4 anni, cioè calcolato su un'età di 64 anni invece che 60 (4 mesi x 12 anni=48 mesi).
L'istituto ricorda, infine, che ai fini del diritto, la maggiorazione viene attribuita con riferimento a tutti i periodi di lavoro effettuati alle condizioni citate (4 mesi per ciascun anno di servizio, ridotto in misura corrispondente in caso di servizio inferiore all’anno).
- by Alex