Linea dura dell'Aran su part time nelle festività infrasettimanali e indennità per specifiche responsabilità
Fonte:sole24ore di Vincenzo Giannotti
Con due orientamenti applicativi, pubblicati entrambi il 15 maggio 2018, l'Aran risponde ai quesiti posti sul part time verticale, sia in materia di recupero delle festività infrasettimanali coincidenti con la giornata non lavorativa (Ral_1974) e sia in merito alla misura delle indennità per specifiche responsabilità (Ral_1976) se piena o proporzionata al tempo lavorativo.
RAL_1974_Orientamenti Applicativi
Nel caso di rapporto di lavoro a tempo parziale di tipo verticale, ove una festività infrasettimanale coincida con la giornata del sabato nella quale il lavoratore titolare di tale tipologia di rapporto di lavoro non è tenuto ad alcuna prestazione lavorativa, lo stesso può recuperare la festività, spostandola in altro giorno?
In ordine alla problematica esposta, si ritiene opportuno evidenziare che, attualmente, non risultano vigenti disposizioni legislative o contrattuali che consentano il recupero, in altra giornata della festività infrasettimanale o anche di quella del santo patrono, ove in presenza di un rapporto di lavoro a tempo parziale di tipo verticale, le stesse ricadano in giorno nel quale, in virtù della distribuzione dell’orario di lavoro settimanale concordato in sede di stipulazione del contratto di rapporto di lavoro a tempo parziale, il lavoratore non sia tenuto ad alcuna prestazione lavorativa.
In proposito, si deve sottolineare anche che la scrivente Agenzia, nei propri orientamenti applicativi, ha già escluso tale possibilità di recupero anche nella fattispecie, analoga, nella quale, in presenza di un rapporto di lavoro a tempo pieno e di un orario di lavoro ordinario articolato su 5 giorni settimanali, la festività infrasettimanale o quella del Santo Patrono ricadano nella giornata di sabato non lavorativo
RAL_1976_Orientamenti Applicativi
Nel caso di rapporto di lavoro a tempo parziale, l’indennità per specifiche responsabilità, di cui all’art.17, comma 2, lett.f), del CCNL dell’1.4.1999, deve essere riconosciuta in misura intera oppure in proporzione al tempo di lavoro del rapporto a tempo parziale?
Relativamente alla particolare problematica esposta, si ritiene opportuno precisare quanto segue.
Sul punto del riproporzionamento dell’indennità per specifiche responsabilità, di cui all’art.17, comma 2, lett.f) e d i), del CCNL dell’1.4.1999, nel caso di rapporto di lavoro a tempo parziale orizzontale, indicazioni sono già state fornite con l’orientamento applicativo RAL_1620 (www.aranagenzia.it, Orientamenti Applicativi, Comparti, Regioni ed autonomie locali, Rapporto di lavoro flessibile, Trattamento economico-normativo).
L’avviso della scrivente Agenzia, inoltre, è nel senso che, anche nella tipologia del rapporto di lavoro a tempo parziale di tipo verticale trova, ugualmente, applicazione la norma di cui all’art.6, comma 9, del CCNL del 14.9.2000, secondo cui il trattamento economico del personale in regime di tempo parziale è proporzionale alla prestazione lavorativa svolta.
In tale regola del riproporzionamento rientra anche l’indennità di cui art. 17, comma 2, lett.i), del CCNL dell’1.4.1999.
In materia, si possono fare alcuni esempi.
Ove l’ammontare dell’indennità di cui si tratta sia fissata in € 1200 annui e sia erogata con cadenza annuale, in presenza di un lavoratore titolare di un rapporto di lavoro a tempo parziale di tipo verticale con prestazione lavorativa prevista per soli sei mesi all’anno, incaricato di specifiche responsabilità, allo stesso potrà essere riconosciuto un importo pari a € 600 (1/2 di € 1200).
Ove l’ammontare della indennità sia sempre pari ad € 1200 e sia erogata su base mensile (€ 100 mensili), al lavoratore titolare di un rapporto di lavoro a tempo parziale di tipo verticale con prestazione lavorativa prevista per soli sei mesi all’anno, sarà riconosciuto sempre un importo dell’indennità pari a € 600 (100 x 6 mesi).
Fermo restando l’importo annuo dell’indennità (€ 1200), ove essa sia erogata con periodicità mensile (€ 100 mensili), nel caso in cui venga in considerazione un lavoratore titolare di un rapporto di lavoro a tempo parziale di tipo verticale con prestazione lavorativa articolata su soli due giorni nell’ambito di una settimana lavorativa di 5 giorni (settimana corta), al suddetto lavoratore sarà corrisposto un importo della suddetta indennità pari a € 40 (2/5 di € 100).
La regola del riproporzionamento non può non trovare applicazione anche nel caso di rapporto di lavoro a tempo parziale di tipo misto, dato che questo, come è noto, è caratterizzato da una distribuzione dell’orario di lavoro risultante da una combinazione dei diversi tipi orizzontali e verticali
Entro il 30 giugno pubblicazione della relazione sulla Performance dei Dipendenti Pubblici
Fonte:ilpersonale
Nelle amministrazioni pubbliche il concetto di performance è stato introdotto dal decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150, che ha disciplinato il ciclo della performance. Ecco alcune indicazioni in merito alla scadenza per la pubblicazione della relazione sulla Performance dei Dipendenti Pubblici.
Sulla base del d.lgs. 150/2009, modificato dal d.lgs. 74/2017, le amministrazioni pubblicano e aggiornano annualmente un documento che ne descrive il funzionamento; in tale documento, ciascuna amministrazione, tenuto conto del quadro normativo di riferimento, nonché degli indirizzi forniti dal Dipartimento della Funzione Pubblica (DFP), riporta anche i ruoli e le responsabilità di ciascuno dei soggetti coinvolti nelle diverse fasi di programmazione, misurazione, valutazione e rendicontazione.
Le diverse fasi in cui si articola il ciclo della performance consistono nella definizione e nell’assegnazione degli obiettivi, nel collegamento tra gli obiettivi e le risorse, nel monitoraggio costante e nell’attivazione di eventuali interventi correttivi, nella misurazione e valutazione della performance organizzativa e individuale, nell’utilizzo dei sistemi premianti.
Il ciclo si conclude con la rendicontazione dei risultati agli organi di indirizzo politico-amministrativo, ai vertici delle amministrazioni, nonché ai cittadini, agli utenti e ai destinatari dei servizi.
La scadenza
L’art. 10, comma 1, lett. b) del d.lgs. 150/2009, così come modificato dal d.lgs. 74/2017, prevede che entro il 30 giugno di ciascun anno, le amministrazioni redigono e pubblicano sul proprio sito istituzionale la Relazione annuale sulla performance, approvata dall’organo di indirizzo politico-amministrativo e validata dall’OIV.
Sul punto devono, quindi, intendersi superate le disposizioni di cui alla delibera CiVIT n. 6 del 2012.
Le Relazioni annuali sulla performance relative all’anno 2017 devono, pertanto, essere approvate, validate e pubblicate entro il 30 giugno 2018.
Conseguentemente, la predisposizione della Relazione da parte delle amministrazioni deve essere avviata in tempo utile per consentirne l’approvazione da parte dell’organo politico-amministrativo e la successiva validazione da parte dell’OIV nel rispetto della scadenza del 30 giugno.
Pubblica Amministrazione-cittadini: rapporti sempre più critici
P.A. e cittadini: rapporti sempre più critici. ECCO LE PROPOSTE DI SEMPLIFICAZIONE DEI CONSULENTI DEL LAVORO
Non è facile gestire i rapporti con la Pubblica Amministrazione. Lo sanno bene i Consulenti del Lavoro, che quotidianamente nel loro ruolo di intermediari sono alle prese con una lunga serie di disservizi e disguidi generati dall’interlocuzione con gli Enti pubblici. Per questo motivo, in occasione dell’Assemblea dei Consigli provinciali dell’Ordine dei Consulenti del Lavoro, in corso di svolgimento presso la Link Campus University di Roma, il Consiglio nazionale ha avviato una ricognizione interna per giungere ad un “Libro bianco” sulle disfunzioni degli Enti di riferimento, che sarà presentato al prossimo Governo ed, in particolare, ai futuri Ministri del Lavoro e dell’Economia. Molte criticità operative sono già state raccolte in un documento contenente alcune proposte con cui favorire la compliance tra amministrazioni pubbliche, cittadini e professionisti. “Non basta la digitalizzazione dei processi per favorire il dialogo tra la Pubblica Amministrazione, le imprese ed i professionisti”, ha dichiarato la Presidente del Consiglio nazionale dell’Ordine dei Consulenti del Lavoro, Marina Calderone. “È necessario prima di tutto che gli Enti accolgano i suggerimenti di chi, come i Consulenti del Lavoro, vive giornalmente la realtà e le difficoltà delle imprese. Per questo forniremo al nuovo Governo un pacchetto di criticità e di soluzioni con cui rendere questo Paese più efficiente e competitivo”. Una situazione critica, ad esempio, è quella riscontrata con l’Inps, che continua a disconoscere i rapporti di lavoro subordinato avviati nelle imprese a carattere familiare, indipendentemente dalla verifica dei presupposti della subordinazione.
Nonostante il nostro ordinamento non preveda una norma che vieti l’assunzione di familiari con un contratto di lavoro subordinato, l’Istituto insiste su questa posizione generando contenziosi che allungano tempi e costi della giustizia e in cui, alla fine, risulta soccombente. Inoltre, nonostante gli uffici siano deputati all’accoglienza delle utenze, l’accesso da parte degli operatori qualificati, come i Consulenti del Lavoro, è legato ad un’agenda appuntamenti elettronica che rimane succube dei capricci dell’informatica e della discrezionalità della sede stessa. Si rende così problematico, se non a volte impossibile, sia programmare la propria attività sia intervenire nei casi di urgenza. Altre criticità si riscontrano nella gestione delle politiche attive del lavoro. Il Consiglio nazionale non può che essere favorevole alla creazione di un sistema informativo unitario performante, che diventi unico punto di riferimento per gli utenti in cerca di collocamento e per gli operatori pubblici e privati. Ad oggi i servizi per l’impiego hanno assunto un’articolazione disomogenea tra le Regioni, contribuendo ad aumentare il divario di opportunità che caratterizza il mercato del lavoro italiano.
Legge 104: i permessi si estendono ai parenti?
Fonte:legge per tutti Articolo tratto dalla consulenza resa dalla dott.ssa Noemi Secci
Il diritto ai 3 giorni di permessi mensili può essere esteso allo zio (parente entro terzo grado) della persona (maggiorenne) con disabilità in situazione di gravità quando quest’ultima ha un solo genitore (l’altro è deceduto)? Leggendo l’interpello del Ministero del Tesoro n. 19 del 26 giugno 2014 e lo stesso sito dell’ INPS (“La possibilità di passare dal secondo al terzo grado di assistenza si verifica anche nel caso in cui uno solo dei soggetti menzionati -coniuge, parte dell’unione civile, convivente di fatto -art. 1, commi 36 e 37, legge 76/2016), genitore- si trovi nelle descritte situazioni -assenza, decesso, patologie invalidanti-) mi è parsa possibile detta estensione. Purtroppo l Inps ha respinto la richiesta ritenendo che il parente entro il tero grado non ne ha diritto poichè il disabile ha comunque un genitore. È corretto?
I permessi retribuiti Legge 104 possono essere estesi ai parenti entro il 3° grado se i genitori, o il coniuge (o la parte dell’unione civile), oppure il convivente del disabile (come precisato dalla Circolare Inps 38/2017, a seguito della recente estensione dei permessi retribuiti al convivente):
– hanno compiuto i 65 anni;
– oppure sono anch’essi affetti da patologie invalidanti a carattere permanente indicate da un apposito decreto interministeriale (nel dettaglio, sono elencate dall’Art. 2, Co. 1 Lett. d), del DI 21 luglio 2000 n. 278);
– oppure sono deceduti o mancanti per assenza naturale, giuridica (ad esempio, celibato o divorzio) o per situazioni di assenza continuative, giuridicamente assimilabili alle precedenti e certificate dall’autorità giudiziaria o dalla pubblica autorità (Circ. INPS 3 dicembre 2010 n. 155).
Questo, anche se le condizioni indicate si riferiscono ad uno solo dei soggetti interessati: una diversa interpretazione, cioè consentire l’estensione dei permessi retribuiti ai familiari di 3° grado solo quando tutti i familiari prioritariamente interessati (genitore, coniuge, parte dell’unione civile, parente o affine entro il 2° grado) si trovano nell’impossibilità di assistere il disabile, finirebbe per restringere fortemente la platea di coloro che possono prestare assistenza al disabile.
È quanto chiarito dalla Risposta del ministero del Lavoro all’Interpello n.19 del 26 giugno 2014.
Effettivamente, la Legge 183/2010, che offre la possibilità di fruire dei permessi Legge 104 anche ai parenti entro il 3° grado, non fornisce questa specifica, ma non sottolinea nemmeno che tutti i familiari più prossimi debbano trovarsi in condizioni di impedimento. La legge, difatti, prevede che: “« A condizione che la persona handicappata non sia ricoverata a tempo pieno, il lavoratore dipendente, pubblico o privato, che assiste persona con handicap in situazione di gravità, coniuge, parente o affine entro il secondo grado, ovvero entro il terzo grado qualora i genitori o il coniuge della persona con handicap in situazione di gravità abbiano compiuto i sessantacinque anni di età oppure siano anche essi affetti da patologie invalidanti o siano deceduti o mancanti, ha diritto a fruire di tre giorni di permesso mensile retribuito coperto da contribuzione figurativa, anche in maniera continuativa.”
Per capire, nel caso specifico, se il diritto ai permessi Legge 104 per il familiare di 3° grado c’è, nonostante la presenza di un genitore, è dunque opportuno leggere attentamente ciò che è spiegato nella Risposta del ministero del Lavoro all’Interpello 19/2014.
“Si precisa che può fruire dei permessi in argomento il parente o affine entro il terzo grado, anche qualora le condizioni sopra descritte si riferiscano ad uno solo dei soggetti menzionati dalla norma.
Ciò in quanto, sotto un profilo ermeneutico, il Legislatore utilizza la disgiuntiva per indicare le condizioni che consentono l’estensione del diritto ai permessi al terzo grado di parentela o affinità (cfr. Dip. Funzione pubblica circ. n. 13/2010). Inoltre, una diversa interpretazione – cioè consentire l’estensione al terzo grado solo quando tutti i soggetti prioritariamente interessati (coniuge, parente o affine entro il secondo grado) si trovino nella impossibilità di assistere il disabile – finirebbe per restringere fortemente la platea dei soggetti interessati.
Alla luce delle osservazioni svolte, si ritiene pertanto che al fine di consentire la fruizione dei permessi ex art. 33, comma 3, L. n. 104/1992 ai parenti o affini entro il terzo grado debba essere dimostrata esclusivamente la circostanza che il coniuge e/o i genitori della persona con handicap grave si trovino in una delle specifiche condizioni stabilite dalla medesima norma, a nulla rilevando invece, in quanto non richiesto, il riscontro della presenza nell’ambito familiare di parenti o affini di primo e di secondo grado.”
In base a quanto esposto, il ministero del Lavoro spiega che sia necessario dimostrare la sussistenza delle condizioni che impediscono di assistere il disabile in capo a entrambi i genitori, non a uno soltanto.
È vero che questo si scontra, in parte, con quanto esposto precedentemente dal Ministero nello stesso testo, nel punto in cui spiega che i parenti di terzo grado possono fruire dei permessi anche “qualora le condizioni sopra descritte si riferiscano ad uno solo dei soggetti menzionati dalla norma”.
Tuttavia, nella risposta all’interpello il Ministero spiega con maggiore precisione ciò che non deve essere verificato, ossia “il riscontro della presenza nell’ambito familiare di parenti o affini di primo e di secondo grado”, mentre deve essere “dimostrata esclusivamente la circostanza che il coniuge e/o i genitori della persona con handicap grave si trovino in una delle specifiche condizioni stabilite dalla medesima norma.”
Dato che si parla dei genitori, non di un genitore, si desume dunque che il Ministero richieda la verifica delle condizioni di impedimento all’assistenza in capo a entrambi i genitori, e non uno soltanto.
Questo, purtroppo, spiega perché è stata respinta la domanda del lettore.
Lavoro notturno e diritto alla pensione di anzianità
Fonte:legge per tutti Articolo tratto dalla consulenza resa dalla dott.ssa Noemi Secci
Ho inviato all’Inps la richiesta di verifica requisiti per lavoro usurante per poter andare in pensione dal 27.03.2019 in quanto sono nato il 27.08.1956. Al 27.03.2019 avrò maturato oltre 36 anni di contributi e dal 2010 al 2017 compresi ho svolto lavoro notturno con contratto a tempo determinato stagionale per 21/22 settimane all’anno per più di 78 giorni di lavoro notturno con orario 24:00-07:00 per 5 giorni a settimana (il sesto giorno orario 24:00-5:00). Fino al gennaio 2013 ho avuto anche contributi di lavoro autonomo. L’Inps rifiuta il riconoscimento in quanto non ho svolto l’attività per il periodo minimo richiesto dalla legge invitandomi al ricorso ma non specificandomi il motivo. Cosa c’è sfuggito?
Effettivamente, nella consulenza precedente il lettore non aveva specificato l’orario notturno svolto, ma aveva soltanto riferito di essere in possesso del requisito delle 78 giornate annue con lavoro notturno.
Perché il requisito possa dirsi soddisfatto, tuttavia, è necessario che il lavoro notturno sia svolto, per ciascuna notte, in misura almeno pari a 6 ore; in caso contrario, il lavoro notturno viene valorizzato se si raggiungono almeno 3 ore di attività notturna svolte per l’intero anno.
Tuttavia, in base a quanto riferito dal lettore nella presente consulenza, il requisito delle 78 giornate dovrebbe comunque essere presente, in quanto, se si moltiplicano 5 giornate da 6 ore per 21 settimane si ottengono 105 giornate annue, quindi più di 78 giornate.
A questo punto bisogna interrogarsi sul periodo minimo di svolgimento dell’attività lavorativa.
Il beneficio della pensione di anzianità spetta:
– se l’attività notturna è stata svolta per almeno 7 anni, negli ultimi 10 anni di vita lavorativa;
– in alternativa, se l’attività notturna è stata svolta per almeno metà della vita lavorativa.
Se il lettore ha svolto l’attività notturna dal 2010 al 2017, significa che l’attività è stata svolta per 8 anni negli ultimi 10 di vita lavorativa, contando a ritroso dal 2019. Dunque non può essere nemmeno questo il requisito contestato.
Il problema potrebbe allora derivare dallo svolgimento di attività stagionale, in quanto svolta per meno della metà dell’anno. Tuttavia, se realmente la questione vertesse su questo punto, sarebbe “un assurdo”, in quanto superando il requisito delle 78 notti l’anno dovrebbe essere automaticamente soddisfatto il requisito dell’attività notturna prestata per almeno 7 anni nell’ultimo decennio.
I chiarimenti forniti dall’Inps al proposito sono i seguenti:
“Per l’individuazione del periodo dei 7 anni di svolgimento di attività lavorative particolarmente faticose e pesanti:
– si procede alla valutazione per “anno solare”, quello intercorrente tra un qualsiasi giorno dell’anno e il corrispondente giorno dell’anno precedente;
– si tiene conto dei periodi di svolgimento effettivo di attività lavorativa particolarmente faticosa e pesante desumibile dall’accredito di contribuzione obbligatoria, con esclusione dei periodi totalmente coperti da contribuzione figurativa (c.d. neutri);
– si tiene conto dei periodi di svolgimento di attività di lavoro dipendente.
Tale periodo:
– si deve collocare entro il periodo degli ultimi 10 anni di attività lavorativa;
– (deve comprendere l’anno di maturazione dei requisiti per l’accesso al trattamento pensionistico anticipato – nell’anno di maturazione dei requisiti occorre aver svolto attività lavorativa particolarmente faticosa e pesante) questo requisito è stato abrogato dalla legge di bilancio 2017, L.232/2016;
– può non essere continuativo.
Poiché, nel caso specifico, in base alle indicazioni fornite dal lettore nelle richieste di consulenza, nell’ultimo decennio a ritroso dalla data di maturazione dei requisiti della pensione, risultano perfezionati almeno 7 anni con un minimo di 78 notti l’anno da 6 ore, a parere della scrivente il requisito per la pensione di anzianità con le quote sussiste.
Il discorso sarebbe stato differente, invece, per il lavoro usurante in sé (non a causa dei turni notturni), in quanto, non essendo previsto un numero specifico di giornate l’anno, in quel caso il lavoro stagionale, non svolto per tutto l’anno, avrebbe potuto precludere l’accesso al pensionamento agevolato (anche se la normativa in tal senso è lacunosa e l’interpretazione non è comunque univoca).
Privacy: in arrivo il decreto di adeguamento al Gdpr
All'esame del Parlamento la bozza del decreto legislativo destinato ad armonizzare il Regolamento privacy con la normativa comunitaria in vigore dal 25 maggio. Ecco le novità e il testo
Fonte:studiocataldi di Lucia Izzo
Il 25 maggio è alle porte, data nella quale entreranno ufficialmente in vigore le novità previste dal GDPR – General Data Protection Regulation, ovverosia il Regolamento europeo sulla privacy approvato il 14 aprile 2016, direttamente applicabile agli Stati membri.
Leggi anche GDPR: tutto quello che c'è da sapere
Tempi stretti, strettissimi, quelli a disposizione per l'esame e l'approvazione dello "Schema di decreto legislativo recante disposizioni per l'adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni del Regolamento (UE) 2016/679" (qui sotto allegato) relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati, attualmente assegnato alla Commissione parlamentare speciale per l'esame di atti del Governo.
L'ultima bozza trasmessa al Parlamento, enumera numerose e interessanti novità e diversità di scelte rispetto alle precedenti stesure, a partire proprio dall'abbandono dell'idea di eliminare completamente il Codice in materia di trattamento dei dati personali (d.lgs. n. 196/2003): il decreto punta a un'abrogazione "selettiva", attraverso un esteso intervento di "taglia e cuci", operando un gran numero di sostituzioni e integrazioni al provvedimento originario.
Codice Privacy: niente abolizione
In sostanza, vengono abrogate espressamente solo le disposizioni del Codice Privacy incompatibili con quelle del Gdpr (la massima parte) e modificate le altre limitatamente a quanto necessario per dare attuazione alle disposizioni non direttamente applicabili contenute nel regolamento stesse, coordinando ove possibile quelle vigenti con le innovazioni in arrivo.
Ferma restando la prevalenza del Regolamento Europeo, si è scelto, dunque, di garantire la continuità, ove possibile, con il vecchio codice privacy quando possibile e sono stati fatti salvi, per un periodo transitorio, anche i provvedimenti del Garante della Privacy e le autorizzazioni, che saranno oggetto di successivo riesame di compatibilità, nonché i Codici deontologici vigenti.
Essi restano fermi nell'attuale configurazione nelle materie di competenza degli Stati membri, mentre potranno essere riassunti e modificati su iniziativa delle categorie interessate quali codici di settore. Si sono, ancora, rafforzati il meccanismo delle consultazioni pubbliche e il coinvolgimento delle categorie interessate in molteplici casi.
La bozza necessita ora del parere delle commissioni parlamentari di Camera e Senato, oltre che del Garante Privacy, prima di ritornare a Palazzo Chigi per ottenere il via libero definitivo da parte del Consiglio dei Ministri. Il tutto dovrebbe avvenire in "lavorativi", entro il 21 maggio, poiché il tempo stringe in vista dell'entrata in vigore del Gdpr prevista per il 25 maggio.
Nell'attesa, ecco alcune delle più interessanti novità introdotte dallo schema di decreto legislativo.
Trattamento illecito dei dati: restano le sanzioni penali
Niente depenalizzazione a tappeto, le sanzioni penali per il trattamento illecito dei dati restano nella nuova bozza. Tuttavia, si è ritenuto di non potere mantenere il reato di cui all'art. 169 del previgente Codice, "Misure di sicurezza", non essendo più previste le misure minime di sicurezza.
Il nuovo art. 167, invece, punisce il trattamento illecito di dati con la reclusione da sei mesi a un anno e sei mesi e, ove sussistano determinati condizioni, la pena arriva fino a 3 anni di reclusione.
Resta anche la sanzione penale in caso di falsità nelle dichiarazioni al Garante: salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, in un procedimento o nel corso di accertamenti dinanzi al Garante, dichiara o attesta falsamente notizie o circostanze o produce atti o documenti falsi, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni.
Nuovi sono, invece, i reati di "Comunicazione e diffusione illecita di dati personali riferibili a un ingente rilevante numero di persone", punito con la reclusione da uno a sei anni, e di "Acquisizione fraudolenta di dati personali", punito con la reclusione da uno a quattro anni.
Minori: consenso su internet da 16 anni
In materia di servizi della società dell'informazione, vale a dire quei servizi prestati normalmente dietro retribuzione, a distanza, per via elettronica e a richiesta individuale di un destinatario (ad esempio social network o servizi di messaggistica) il legislatore ha stabilito in 16 anni il limite di età valida per prestare il consenso al trattamento dei propri dati personali (anziché i 14 fissati nella prima bozza).
Una disposizione che si adegua a quanto indicato dall'art. 8 de Regolamento Europeo, a norma del quale: "Per quanto riguarda l'offerta diretta di servizi della società dell'informazione ai minori, il trattamento di dati personali del minore è lecito ove il minore abbia almeno 16 anni".
Sempre in relazione a tali servizi, ma per gli infra-sedicenni il consenso al trattamento dei dati personali sarà lecito a condizione che sia prestato o autorizzato da chi esercita la responsabilità genitoriale.
La norma, si legge nella relazione alla bozza di decreto, è volta a tutelare il minore in quei contesti virtuali ove risulta maggiormente esposto a causa di una minore consapevolezza dei rischi insiti nella "rete". La disposizione, infatti, rende l'operatore consapevole del fatto che minori possono accedere ai servizi, e quindi richiede di apprestare le relative misure.
All'infuori dell'ambito dei servizi della società dell'informazione, permane in ogni caso il limite dei diciotto anni per la prestazione di un valido consenso al trattamento dei dati personali.
Sanità: addio consenso al trattamento dei dati?
Con riferimento ai dati genetici, biometrici e relativi alla salute viene attuata la delega riservata dal regolamento agli ordinamenti nazionali: il decreto stabilisce, infatti, che il relativo trattamento sia subordinato all'osservanza di misure di garanzia che verranno stabilite dal Garante per la protezione dei dati personali con provvedimento adottato con cadenza almeno biennale, a seguito di consultazione pubblica.
Le misure di garanzia saranno adottate tenendo in considerazione le specifiche finalità di trattamento in relazione a ciascuna delle categorie di dati e nel rispetto delle condizioni alternative di legittimità del trattamento, previste dall'articolo 9, paragrafo 2 del regolamento.
Questa norma prevede, ad esempio, che il consenso non debba essere più richiesto ove il trattamento sia necessario per finalità di medicina preventiva o di medicina del lavoro, valutazione della capacità lavorativa del dipendente, diagnosi, assistenza o terapia sanitaria o sociale ovvero gestione dei sistemi e servizi sanitari o sociali sulla base del diritto dell'Unione europea o degli Stati membri o conformemente al contratto con un professionista della sanità, o se il trattamento è necessario per motivi di interesse pubblico nel settore della sanità pubblica.
Va chiarito come non ci si stia riferendo, nella specie, al consenso informato alla prestazione sanitaria, ma a quello, in materia di privacy, riferito strettamente ai dati del paziente e alla loro raccolta, registrazione, elaborazione o le operazioni che li coinvolgono.
Bozza decreto legislativo Privacy
Lavoro: pubblicata nuova edizione testo unico salute e sicurezza
Pubblicata dall'ispettorato nazionale del lavoro la versione aggiornata a maggio 2018 del decreto legislativo n. 81/2008 (Testo unico su salute e sicurezza)
Studio cataldi
Nuova versione del testo unico su salute e sicurezza nei luoghi di lavoro. A dieci anni dall'entrata in vigore del decreto legislativo 81/2008, l'Ispettorato Nazionale del lavoro ha reso disponibile l'aggiornamento del testo, con le disposizioni integrative e correttive.
Nello specifico, l'edizione maggio 2018 del T.U. comprende ora:
- la circolare INL n. 1/2018 recante indicazioni operative sullo svolgimento diretto da parte del datore di lavoro dei compiti di primo soccorso, prevenzione incendi (art. 34, comma 1, D.Lgs. n. 81/2008);
- la circolare INL n. 3/2017 recante indicazioni operative sulle sanzioni da applicare in caso di omessa sorveglianza sanitaria dei lavoratori;
- il Decreto Direttoriale n. 2/2018, concernente l'elenco dei soggetti abilitati e dei formatori per l'effettuazione dei lavori sotto tensione;
- il Decreto Direttoriale n. 12/2018, contenente l'elenco dei soggetti abilitati per l'effettuazione delle verifiche periodiche;
- gli interpelli nn. 1 e 2 del 2017, 1 e 2 del 2018, nonché n. 8/2014 (al termine dell'art. 3 comma 12bis).
Vai alla versione aggiornata del Testo Unico sulla salute e sicurezza sul lavoro
Offese tra colleghi davanti ai clienti: conseguenze
Fonte:legge per tutti
Via libera al licenziamento del dipendente che, negli uffici amministrativi e alla presenza dei clienti, urla e dice parolacce.
Sul lavoro devi stare molto attento non solo a cosa dici, ma anche a dove lo dici: può capitare non di rado, infatti, che espressioni giustificabili dalla rabbia del momento non lo siano tuttavia per il fatto di essere pronunciate in determinati ambienti. Quali? Facciamo un esempio. Oggi ti sei svegliato con il piede storto: è l’ennesima volta che, sul lavoro, si verificano fatti spiacevoli e non ti va più di passarci sopra. Hai così un impulso rabbioso: gridi frasi forti e sprezzanti verso chi ha preso determinate decisioni “interne” e sbatti qualche porta. Il tutto, però, alla presenza di alcuni clienti che, un po’ imbarazzati, sentono le tue parole mentre attendendo il loro turno. Senonché lo sfogo verbale finisce sul tavolo del capo che lo viene a sapere e ti chiama a colloquio: le tue parole – di dice – hanno danneggiato l’immagine dell’azienda. Così intende licenziarti. Può farlo? In caso di offese tra colleghi davanti ai clienti, quali conseguenze possono scattare per il dipendente? La questione è stata decisa ieri dalla Cassazione [Cass. ord. n. 12102/18 del 17.05.2018.]. Ecco cosa è stato detto
Come sempre succede in materia di lavoro, ogni caso è una storia a sé. Questo perché, per stabilire le conseguenze disciplinari che un comportamento può avere bisogna conoscere i fatti e sapere come si è svolta la vicenda concreta. La regola, in ambito di rapporto di lavoro subordinato, impone infatti di adottare sanzioni proporzionate alla gravità delle azioni. Anche un semplice dettaglio può influenzare il giudizio finale sulla condotta del dipendente che ha dato originale al procedimento disciplinare nei suoi riguardi. Certo, non è certo bello offendere i colleghi e tantomeno i superiori gerarchici. Quando poi le accuse vengono rivolte al datore di lavoro, neanche un clima di tensione interno può giustificare una insubordinazione. Ma da qui a parlare di licenziamento il passo non è immediato. L’alterco può spegnersi sul momento ed essere inquadrato come un “confronto” – seppur inurbano – tra persone obbligate a vivere nello stesso ambiente (un po’ come succede in famiglia). In verità, nell’ambiente di lavoro, nessuno è libero di gestire le proprie reazioni come meglio crede: c’è l’immagine dell’azienda da salvaguardare e la produzione. Con riferimento alla prima, soprattutto, in presenza di clienti è sempre bene mantenere un certo decoro e contegno, in modo che non si sappia all’esterno che “qualcosa non funziona”. Ecco perché la Cassazione ha ritenuto più grave lo sfogo verbale avuto davanti ad estranei. Ed ecco perché, nel caso di specie, è stato ritenuto valido il licenziamento nei confronti di un medico di una clinica privata che, innanzi ad alcuni utenti, aveva gridato a gran voce: «Ma tu non hai un c…o da fare … cresci una buona volta». Quindi, uscito da quella stanza, sbattendo la porta, e rientrato nell’ufficio amministrativo – ove erano presenti anche alcune impiegate –, si era rivolta all’addetta al personale, dicendo con aria minacciosa: «Vi denuncio tutti alla Procura della Repubblica».
Discreditare i colleghi significa discreditare l’immagine dell’azienda
Una volta accertata la condotta del lavoratore, è impossibile, secondo i Giudici, ritenerla lecita o quantomeno giustificabile. Né si può ritenere che la stessa possa essere punita con una sanzione meno grave del licenziamento. Secondo i Giudici, «il comportamento sanzionato risulta di particolare gravità», anche perché «avvenuto in presenza del personale dell’azienda e dei clienti» e rivolto all’indirizzo «del dirigente e del personale».
Non dimentichiamoci poi che le offese tra colleghi potrebbero anche integrare gli estremi penali se uno dei dipendenti dovesse parlare male di un altro in sua assenza: si potrebbe, in questo caso, parlare di diffamazione, reato per il quale – lo ricordiamo – basta una frase offensiva e lesiva dell’altrui reputazione proferita in presenza di almeno due persone e in assenza dell’interessato. Ma è anche una “diffamazione” all’immagine dell’azienda che, comunque, con i propri dipendenti forma un tutt’uno.
Senza contare che il datore è altresì responsabile per la salute psicofisica dei propri lavoratori, il che comporta preservarli da ambienti stressanti e conflittuali. Per cui se un collega offende un altro e la condotta si ripete costantemente si può verificare anche la sussistenza del mobbing cosiddetto “orizzontale”.
Detto ciò, non bisogna pensarci due volte: anche se mal digerite, le questioni sul lavoro non possono dar vita a reazioni plateali. Sempre meglio prendere un foglio di carta e scrivere ai vertici, in modo pagato e senza usare espressioni ingiuriose.
Da PensioniOggi:
Pensioni, La disparità dell'età pensionabile rende nullo il licenziamento della lavoratrice
· Fonte:pensionioggi Scritto da Vittorio Spinelli
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione accogliendo la domanda di alcune ballerine del Teatro dell'Opera di Roma licenziate per aver raggiunto un'età anagrafica per il pensionamento di vecchiaia diversa da quella stabilita per gli uomini.
Non è possibile procedere al licenziamento delle lavoratrici per raggiungimento dell’età pensionabile se questa è diversa da quella prevista per gli uomini. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione con la sentenza numero 12108 del 17 Maggio 2018 in cui i giudici erano stati chiamati a valutare la legittimità del licenziamento di alcune dipendenti del Teatro dell'Opera di Roma per raggiungimento dell'età pensionabile.
La questione verteva sugli effetti dell'art. 3 comma 7 d.l. n. 64/2010 conv. in legge n. 100/2010 che aveva, a partire dal 1° maggio 2010, ridotto l'età pensionabile per i lavoratori dello spettacolo appartenenti alle categorie dei tersicorei e ballerini assicurati presso l'Enpals, al raggiungimento del 45° anno di età per uomini e donne.
La disposizione da ultimo richiamata aveva anche previsto che per i due anni successivi, ai lavoratori assunti a tempo indeterminato che avessero raggiunto o superato l'età pensionabile, fosse data facoltà di esercitare l'opzione rinnovabile annualmente, per restare in servizio, mediante istanza da presentare all'Enpals entro due mesi dalla data di entrata in vigore del decreto legge 64/2010 o tre dal perfezionamento del diritto alla pensione, fermo restando il limite massimo di pensionamento di vecchiaia di 47 anni per le donne e 52 per gli uomini previsto dalla disciplina antecedente all'intervento normativo del decreto legge 64/2010. Le lavoratrici avevano esercitato il diritto di opzione ma erano state licenziate dalla Fondazione che gestisce il Teatro al compimento dei 47 anni per raggiungimento del limite di età.
La decisione della Corte
Ne è nato un lungo contenzioso giudiziario con la Corte d'Appello che ha bocciato il ricorso delle lavoratrici dopo la sentenza del Tribunale che, invece, era stato loro favorevole. La materia del contendere è quindi sfociata in Cassazione e - a seguito del sollevamento della questione pregiudiziale da parte degli stessi giudici di Piazza Cavour - presso la Corte di Giustizia Europea la quale con ordinanza del febbraio scorso ha dichiarato non conforme l'art. 3 comma 7 d.l. n. 64/2010 convertito in L. 100/2010, ai principi di non discriminazione (per ragioni di genere) fra uomini e donne quale espresso dalla direttiva 2006/54 e dell'art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea.
Secondo la Corte Ue "il licenziamento per raggiungimento dei limiti di età di 47 anni per le donne, è da considerarsi come licenziamento discriminatorio, poiché integra una discriminazione diretta per ragioni di sesso, al quale non possono opporsi legittime deroghe per finalità sociale o di interesse pubblico". In altri termini - prosegue la Corte di Giustizia Europea "una politica generale la quale contempli il licenziamento di una lavoratrice per il solo motivo che essa ha raggiunto o superato l'età alla quale ha diritto ad una pensione di vecchiaia, che è diversa per gli uomini e per le donne ai sensi della normativa nazionale, costituisce una discriminazione diretta fondata sul sesso vietata dalle norme comunitarie".
La sentenza europea ha quindi aperto la strada all'accoglimento del ricorso delle lavoratrici da parte della Corte di Cassazione ed è, comunque, molto importante in quanto può essere applicato anche in situazioni in cui esistano delle disparità nell'età di accesso alla pensione di vecchiaia tra uomini e donne diverse dal caso affrontato dai giudici.
La proroga del Dl 64/2010
I giudici di Piazza Cavour hanno peraltro offerto alcune ulteriori indicazioni per l'interprete specifiche sulla normativa enpals. In particolare il biennio transitorio di cui al decreto legge 64/2010 entro cui il lavoratore può esercitare il diritto di opzione va inteso come periodo in cui poter raggiungere i 45 anni di età e non quello di esercizio della proroga, che in tal caso avrebbe avuto l’effetto di posticipare la pensione di solo due anni, come sostenuto dal datore di lavoro.
Sostanzialmente il biennio indicato nella legge individua le coorti dei lavoratori potenzialmente interessati nella proroga che, quindi, comprende ballerini e tersicorei che hanno raggiunto i 45 anni entro il 1° luglio 2012. Inoltre i giudici ricordano che, una volta esercitata l’opzione per la prosecuzione del rapporto di lavoro viene meno per il datore la possibilità di motivare il licenziamento con il compimento d’età e il possesso dei requisiti pensionistici in base all’articolo 4, comma 2, della legge 108/1990. In questa ipotesi il rifiuto del datore di lavoro di consentire la prosecuzione del rapporto, malgrado l'esercizio della facoltà in questione, configura un atto radicalmente nullo per contrarietà ad una norma imperativa, con conseguente obbligo di riassunzione del lavoratore.
La Corte di Cassazione ha quindi accolto il ricorso da parte delle lavoratrici e ha rinviato la decisione nel merito alla Corte d'Appello che dovrà attenersi ai criteri sopra individuati.
Riforma Pensioni, Nel programma Lega-M5S molti i nodi ancora da sciogliere
· Fonte:pensionioggi Scritto da Eleonora Accorsi
Da chiarire la questione degli adeguamenti alla speranza di vita ed il destino dell'ape sociale. Esodati e quindicenni preoccupati per la mancata presa di posizione nel contratto di Governo di M5S-Lega sulla nona salvaguardia pensionistica.
La pubblicazione definitiva del contratto di governo tra Movimento 5 Stelle e Lega scioglie diversi nodi ma non risolve alcune delle tematiche aperte che stanno a cuore a molti lavoratori-pensionandi. La versione del programma, votato nel week-end dalla base elettorale dei due partiti, ha previsto come punti di riforma della legge Fornero l'introduzione della quota 100 e del pensionamento con 41 anni di contributi a prescindere dall'età anagrafica stanziando per queste misure una cifra pari a 5 miliardi di euro (qui i dettagli). Sin qui niente di nuovo dato che i partiti si erano molto spesi in campagna elettorale su questi punti.
Nel documento compare anche la proroga del regime sperimentale donna di cui alla legge 243 del 2004. Obiettivo disporre la prosecuzione della sperimentazione nei confronti anche delle lavoratrici che raggiungano i 57 (o 58 anni) e 35 di contributi dopo il 31 dicembre 2015 utilizzando a tal fine le risorse già stanziate dalla legge di bilancio per il 2016. Non c'è però una data di scadenza chiara. Sino a qualche tempo fa circolava l'ipotesi di una proroga al 31 dicembre 2018 ma è più probabile che non sarà fissata a tavolino ma dipenderà dalle risorse effettivamente disponibili. Che - secondo quanto prevede la legge 232/2016, legge di bilancio per il 2017 - devono essere comunicate entro il 30 settembre di ogni anno dal Governo al Parlamento in quale ha l'ultima parola in merito alla prosecuzione del regime. In definitiva il documento programmatico non farebbe altro che rispettare quanto già previsto dalla legge 232/2016 faticosamente ottenuto con il pressing della Commissione Lavoro presieduta dall'ex Ministro del Lavoro, Cesare Damiano.
La questione delle salvaguardie
Sorprende, invece, l'assenza all'interno del programma di un riferimento all'approvazione della nona salvaguardia pensionistica nei confronti dei lavoratori che avevano perso il lavoro o avevano siglato accordi per la risoluzione del rapporto entro il 2011, prima dell'introduzione la Legge Fornero, e la questione delle derogate della legge Amato cioè della possibilità per le lavoratrici di accesso alla pensione di vecchiaia con un requisito contributivo ridotto a 15 anni anziché vent'anni di contributi.
I comitati che rappresentano le istanze dei Lavoratori "cosiddetti esodati" stanno in queste ore lanciando l'allarme ricordando che sia Lega che M5S si erano a lungo spesi per la soluzione di questi problemi. "Aspettative che non possono essere tradite" fanno sapere dai comitati. Secondo i dati in loro possesso destinatari di una nona salvaguardia sarebbero circa 6-7mila lavoratori, soggetti che avrebbero maturato il diritto alla pensione, con le vecchie regole pensionistiche, entro il 2021-2022 e che ancora sono rimasti imbottigliati nelle maglie della Riforma del 2011.
Nel programma manca poi una presa di posizione circa l' innalzamento progressivo dell'età pensionabile, che come noto dal prossimo anno schizzerà a 67 anni di età per effetto dell'aumento di 5 mesi già comunicato dall'Istat e dal Ministero del Lavoro a dicembre. Questo adeguamento pare ormai non essere in discussione. Per il futuro si vedrà.
Il raccordo con la flessibilità del 2017
Il programma di Governo apre poi una serie di questioni non secondarie. Come gestire il periodo di transizione verso la quota 100 o la quota 41 rispetto agli attuali strumenti di flessibilità introdotti dal 2017 dal Governo Renzi. A seconda infatti di come sarà calibrato l'intervento il destino di questi strumenti potrebbe cambiare sensibilmente.
A preoccupare maggiormente sono le categorie destinatarie dell'ape sociale che attualmente possono contare su un "pensionamento" (o meglio l'accesso ad una indennita' di accompagnamento alla pensione di importo non superiore a 1.500 euro) con 63 anni e 30 o 36 anni di contributi. Quindi con una "quota" oscillante tra 93 e 99 a seconda dei casi. Se lo strumento, con tutte le sue difficoltà applicative, venisse soppiantato tout court dalla quota 100 paradossalmente queste coorti risulterebbero danneggiate rispetto alla normativa vigente dovendo maturare un requisito per il pensionamento superiore. La flessibilità in uscita dovrà, quindi, predisporre delle misure per salvaguardare i risultati già portati a casa con l'accordo del settembre 2016 con la parte sindacale. E si dovrà decidere in fretta dato che l'ape sociale scade il prossimo 31 dicembre 2018.
Come faccio a sapere quanto manca alla pensione?
ALLEGATO*
Pensioni, Anche l'Ue raccomanda di tagliare quelle d'oro
· Fonte:pensionioggiScritto da Valerio Damiani
L'Ue invita l'Italia a garantire la sostenibilità del sistema previdenziale e a tagliare gli assegni troppo elevati non garantiti da contributi versati.
La vera verifica sull'andamento dei conti pubblici italiani è destinata a slittare al prossimo ottobre, se non addirittura alla primavera del 2019. Nel frattempo, l'Italia è invitata a seguire la strada già intrapresa per garantire la sostenibilità del sistema pensionistico e tagliare quelle troppo alte e non coperte dai contributi versati. Sono queste, secondo quanto appreso dall'Ansa, alcune indicazioni contenute nelle raccomandazioni ai Paesi Ue che Bruxelles renderà note mercoledì prossimo.
Nel documento dell'Ue viene segnalata l'opportunità di correggere quei sistemi previdenziali che generano forti asimmetrie nei trattamenti pensionistici concessi a diverse categorie di pensionati non fondati su diversi livelli contributivi. Dato che nei sistemi a ripartizione questi trattamenti di favore si ripercuotono su tutti gli altri contribuenti.
Il documento Ue giunge proprio in occasione della presentazione del programma di Governo tra Lega e Cinque Stelle che hanno già messo in calendario un intervento sulle pensioni d'oro. Nel programma di un futuro Governo Giallo-Verde ci sarebbe, infatti, un taglio delle pensioni elevate, superiori cioè a 5mila euro netti al mese, non maturate sulla base dei contributi versati. Il prelievo finanzierebbe le coperture per sostenere la flessibilità in uscita basata sulla quota 100 e sulla pensione anticipata con 41 anni di contributi a prescindere dall'età anagrafica, capisaldi del programma di governo di Lega e Cinque Stelle per la nuova legislatura.
Nel mirino dei Cinque Stelle ci sarebbero soprattutto ex dirigenti pensionati a carico dei fondi speciali dell'Inps (ex elettrici, ex telefonici, ex inpdai) e alte cariche dello Stato che hanno maturato l'assegno con le regole di calcolo retributive riuscendo con l'ultimo scatto stipendiale ad ottenere un assegno succulento anche senza raggiungere elevate anzianità contributive. Oltre che naturalmente la questione dei vitalizi dei politici.
Disoccupazione, Come si ottiene l'assegno di ricollocazione
Una nota dell'Anpal spiega che da ieri è entrato a regime dopo il periodo di sperimentazione l'assegno di ricollocazione per i disoccupati. Ecco le modalità operative.
Debutta finalmente l'assegno di ricollocazione. Da ieri è partita ufficialmente la seconda fase della nuova misura per agevolare il ritrovo dell'impiego da parte dei lavoratori disoccupati dopo un ritardo di alcuni mesi rispetto all'originaria tabella di marcia. Nè da notizia l'Anpal con un comunicato nel proprio sito istituzionale.
La misura di politica attiva introdotta dalla riforma Jobs act si rivolgerà per ora ai soli disoccupati percettori di Naspi da almeno quattro mesi; per le ulteriori due categorie "aggiunte" dall'ultima legge di bilancio - cioè i beneficiari del reddito d'inclusione (Rei) e i lavoratori coinvolti in accordi di ricollocazione aziendale (art. 24 del dlgs n. 148/2015) sottoscritti in casi di riorganizzazione o crisi aziendale al fine di limitare i licenziamenti a fine cassa integrazione - occorrerà attendere la pubblicazione di un decreto ministeriale che ne regoli tali aspetti.
Il funzionamento
L'Anpal spiega che sarà la stessa Agenzia ad individuare i soggetti potenzialmente beneficiari dello strumento (che resta facoltativo per il disoccupato). Il sistema informativo unitario Anpal invierà una comunicazione contenente una breve descrizione dell'Adr e il collegamento (link) al portale Anpal dove il disoccupato potrà richiedere l'assegno scegliendo anche la sede operativa del soggetto erogatore dei servizi di assistenza alla ricollocazione e fissando con questa un appuntamento.
In alternativa, la richiesta può essere fatta, sempre in via telematica, tramite Patronati convenzionati con l'Anpal (a partire dal 28 maggio 2018); oppure rivolgendosi direttamente al centro per l'impiego competente. La richiesta è infatti facoltativa per il disoccupato. Una volta presentata la domanda il centro per l'impiego avrà sette giorni per verificare l'assenza della fruizione di altre misure di politica attiva incompatibili con l'Adr, e quindi dare luce verde al rilascio dell'assegno. Decorsi inutilmente gli otto giorni, l'Adr s'intende rilasciato con la regola del silenzio-assenso. Una volta ottenuto l'assegno il beneficiario ha l'onere di recarsi presso il soggetto erogatore per il primo appuntamento; nei successivi 14 giorni è perfezionato il «programma di ricerca intensiva» e viene assegnato un tutor.
Profilo di occupabilità
L'Adr, che non è erogato al disoccupato ma all'ente che eroga il servizio di assistenza, dipende da due fattori: livello di occupabilità della persona (fissato dalla sua profilazione: maggiore è la distanza delle persona dal mercato del lavoro e maggiore sarà l'assegno e, quindi, più forte il sostegno per reinserirsi); tipo di contratto di lavoro ottenuto (quelli a termine o a tempo parziale per un orario di lavoro inferiore al 50% valgono meno). I valori minimi e massimi che si possono ottenere, combinando i criteri oscillano da 250 fino a 5 mila euro. L'Adr sarà riconosciuto al buon esito occupazionale in due ratei semestrali di pari importo nel caso di contratto a tempo indeterminato o in unica soluzione nel caso di assunzione a termine. E sarà revocato, secondo percentuali variabili dal 50 al 100% in caso di mancata conservazione del posto di lavoro per il periodo minimo richiesto. Nei casi di mancato raggiungimento dell'esito occupazione sarà comunque erogata una quota fissa denominata Fee4services il cui valore massimo è di 106,50 euro.