Fonte:legge per tutti
Il lavoratore in malattia subisce la riduzione dei permessi retribuiti per l’assistenza di familiari disabili?
Hai diritto ai permessi Legge 104 perché assisti un familiare con handicap grave, ma questo mese hai fatto delle assenze per malattia? Non devi temere che i permessi retribuiti mensili ti siano ridotti o addirittura cancellati: infatti, dopo la malattia si può richiedere il permesso Legge 104 senza che i giorni di malattia incidano sui giorni di permesso retribuiti. Peraltro, tra un periodo di malattia e la successiva fruizione dei giorni di permesso Legge 104 non è necessaria la ripresa dell’attività lavorativa: tutto questo è stato chiarito dal ministero del Lavoro, con la risposta ad un interpello .
Ma procediamo per ordine e vediamo, dopo aver ricordato quando è possibile beneficiare dei permessi Legge 104, che cosa succede quando il lavoratore caregiver, cioè il lavoratore che assiste un familiare disabile, effettua nel mese delle assenze per malattia.
Indice
Chi ha diritto ai permessi Legge 104?
Innanzitutto dobbiamo ricordare che i permessi Legge 104 spettano ai lavoratori che assistono un familiare con handicap grave riconosciuto da un’apposita commissione medica Asl (nell’attesa del riconoscimento “ufficiale”, è possibile ottenere una certificazione provvisoria sostitutiva). Nel dettaglio, i permessi spettano per i seguenti familiari:
I familiari entro il 3° grado hanno diritto ai permessi se il genitore o il coniuge (o il convivente) del disabile:
Quanti giorni di permessi Legge 104 spettano?
Nella generalità dei casi, ai lavoratori a tempo pieno spettano 3 giorni al mese di permessi retribuiti Legge 104: questi permessi sono finalizzati, come abbiamo detto, all’effettiva assistenza di un familiare con handicap riconosciuto in situazione di gravità, quindi se il lavoratore li utilizza per altri scopi può essere sanzionato, rischiando anche il licenziamento.
I permessi spettanti possono essere frazionati anche a ore.
Quanti giorni di permessi Legge 104 spettano ai lavoratori part time?
Chi ha un contratto part time orizzontale, cioè chi lavora tutti i giorni, ma per un numero di ore inferiori all’orario giornaliero ordinario, ha ugualmente diritto a 3 giorni di permesso al mese.
In relazione a ogni giornata, ovviamente, le ore di permesso spettante sono di meno, così come sono di meno le ore lavorate: questa non è una discriminazione, considerando che il diritto non viene tolto, ma viene riproporzionato in base alla quantità del lavoro prestato.
Per quanto riguarda i lavoratori con part time verticale, cioè che prestano la propria attività soltanto per alcune giornate la settimana, o per alcuni periodi dell’anno, il calcolo dei permessi Legge 104 spettanti è differente.
Nella generalità dei casi, il numero dei giorni di permesso retribuito va ridimensionato in proporzione alle giornate di lavoro prestate, arrotondando.
Se, però, il dipendente presta servizio per oltre la metà delle giornate lavorative settimanali, ad esempio se lavora almeno 4 giorni su 6, i 3 giorni di permesso Legge 104 spettano per intero e non devono essere riproporzionati: lo ha chiarito la corte di Cassazione, con una recente sentenza, motivata dall’importanza degli interessi coinvolti e dall’esigenza di effettività di tutela del disabile.
I giorni di permesso Legge 104 vengono ridotti per malattia?
Le assenze per malattia del lavoratore non riducono, come abbiamo anticipato, le giornate di permessi Legge 104 spettanti nel mese. Questo, come chiarito dal ministero del Lavoro, perché le motivazioni alla base delle assenze rispondono ad esigenze di tutela differenti.
Lo stesso principio è applicabile anche ad altre assenze tutelate, come quelle per maternità obbligatoria o facoltativa, o per la fruizione di altri permessi o congedi come i permessi sindacali.
Si tratta di istituti con finalità differenti, in pratica di diritti diversi spettanti al lavoratore, che non possono essere limitati perché il dipendente decide di beneficiarne nello stesso mese.
Quando possono essere ridotti i permessi Legge 104?
Ci sono comunque dei casi in cui i permessi Legge 104 possono essere riproporzionati.
La prima ipotesi riguarda il lavoratore che non è referente unico per l’assistenza del familiare con handicap grave, ma presta assistenza al disabile saltuariamente, o solo per alcuni periodi in sostituzione dell’abituale fruitore dei permessi. In questi casi, al lavoratore che presta assistenza sporadicamente, spetta un giorno di permesso ogni 10 giorni di assistenza continuativa.
Peraltro, in questi casi il lavoratore “caregiver sostituto” deve presentare all’Inps e al proprio datore di lavoro una richiesta scritta che contenga una dichiarazione di responsabilità in cui siano attestati:
I permessi Legge 104 possono essere poi riproporzionati quando la richiesta di fruizione dei permessi viene presentata per la prima volta nel corso del mese.
Ad esempio, se il lavoratore richiede per la prima volta i permessi il giorno 19 del mese di aprile 2018, i permessi Legge 104 devono essere ridotti, ma solo in relazione alla mensilità di aprile 2018.
Fonte: http://www.lagazzettadeglientilocali.it/
La Corte di Cassazione, Sez. Lavoro, tramite sentenza 28 febbraio 2018, n. 4622, pur riconoscendo al funzionario che aveva svolto le funzioni dirigenziali le relative differenze retributive, nega che allo stesso possano estendersi anche la retribuzione di risultato essendo questa dovuta solo in caso di previa definizione degli obiettivi e il concreto accertamento del raggiungimento degli stessi
ALLEGATO*
Fonte: http://www.diritto-lavoro.com
*La Commissione per gli Interpelli in materia di salute e sicurezza del Ministero del lavoro, con interpello n. 1 del 2018, ha risposto ad un quesito avanzato dall’ANIP, che di seguito si riporta.
FONTE:STUDIO CATALDI di Annamaria Villafrate
*Che cos'è la depressione, il riconoscimento di malattia invalidante, i sintomi fisici, l'approccio di uomini e donne, l'assenza dal lavoro, le percentuali di invalidità e i benefici previsti dalla legge
Fonte: http://www.diritto-lavoro.com
La Corte di Appello di Venezia, con la sentenza n. 841 del 2018, ha stabilito che ai fini dell’ avanzamento di carriera va conteggiato anche il periodo di astensione dal lavoro per maternità, è pertanto discriminatorio il comportamento del datore che non effettua tale inclusione.
Vediamo nel dettaglio di cosa si tratta con l’articolo pubblicato oggi (14.3.2018) dal Sole 24 Ore (firma: G. Bifano e U. Percivalle; Titolo: “La maternità vale per la carriera”) che di seguito riportiamo.
È discriminatorio il comportamento del datore di lavoro che non conteggia, ai fini dell’avanzamento di carrriera automatico previsto dal contratto collettivo, i periodi di fruizione del congedo di maternità e di quello parentale.
Lo ha chiarito la Corte d’appello di Venezia con la sentenza 841/2018, facendo riferimento al Ccnl per il personale di terra del trasporto aereo e delle attività aeroportuali, ma affrontando temi di respiro generale.
Due i punti focali della sentenza. Il datore di lavoro ha sostenuto la legittimità della propria condotta, sottolineando come la contrattazione collettiva applicabile faccia riferimento, ai fini della progressione di carriera, al requisito dell’«effettivo servizio» e non invece a quello dell’anzianità di servizio. Secondo l’azienda l’effettivo espletamento delle mansioni sarebbe stato necessario per l’accrescimento della professionalità, funzionale alla promozione e ciò risulterebbe coerente con il testo unico sulla maternità e sulla paternità (Dlgs 151/2001), che prevede come i periodi di fruizione dei congedi parentali debbano essere «considerati ai fini della progressione nella carriera, come attività lavorativa, quando i contratti collettivi non richiedano a tale scopo particolari requisiti». L’effettivo servizio costituirebbe “particolare requisito” che giustificherebbe il diverso trattamento.
La Corte, confermando la posizione già espressa dal tribunale, non è stata di questo avviso, ricordando come la Corte di giustizia della Ue si sia espressa in modo molto forte sul tema (sentenza 595 del 6 marzo 2014)
Anche senza affermarlo esplicitamente, la Corte ha chiarito come i «particolari requisiti» richiesti dal Ccnl per giustificare un trattamento differenziato, debbano consistere in qualcosa di più della mera maturazione di esperienza lavorativa, a pena di contraddire l’impianto stesso del principio di non discriminazione.
A conferma di tale conclusione la Corte ha proposto il secondo punto focale della sentenza, ossia che la natura discriminatoria del comportamento datoriale fosse dimostrata anche dal fatto che le assenze per malattia venivano comunque conteggiate quali periodi di servizio utili alla progressione di carriera.
Da PensioniOggi:
La nuova legislatura dovrà proseguire l'opera di correzione della legge Fornero e rimettere in discussione ‘la soglia di uscita dal mercato del lavoro'”. Lo dichiara Cesare Damiano, esponente del Partito democratico alla vigilia dell'insediamento del nuovo parlamento che ha visto uscire sconfitto il PD. “Nel corso della campagna elettorale – spiega – sono state fatte molte promesse di ‘cancellazione’ della legge previdenziale del Governo Monti. Dalle parole adesso si passi ai fatti, come è avvenuto nella passata legislatura (con le 8 salvaguardie, Opzione Donna e l’APE sociale, per citare alcuni esempi), e si completi l’opera iniziata cinque anni fa".
Per l'ex ministro del Lavoro occorre prima di tutto rendere strutturale l’anticipo pensionistico a 63 anni (che scade alla fine del 2018) e andare oltre le 15 categorie dei lavori pesanti che beneficiano della normativa sui lavori gravosi; risolvere definitivamente il problema degli ‘esodati’ con una nona salvaguardia; proseguire la sperimentazione di Opzione Donna; rendere possibile l’accesso alla pensione con 41 anni di contributi e indipendentemente dall’età, cancellando gli attuali paletti previsti dall’APE. Un passo avanti importante che almeno in parte coincide con le proposte del M5S e della Lega Nord che hanno fatto una lunga campagna elettorale contro la riforma del 2011. In totale - conclude Damiano - sottratti dalla feroce morsa della ‘riforma’ del Governo Monti circa 250.000 lavoratori con un recupero di 20 miliardi di euro”. “Se questo si è potuto fare nel corso dell’ultima legislatura, altro si potrà fare nella prossima. Da questi risultati dobbiamo ripartire per fare altri passi avanti, senza dover essere intrappolati nella paralizzante tenaglia degli opposti estremismi: tra chi semina l’anacronistico terrore dello squilibrio dei conti previdenziali e chi teorizza la cancellazione di una legge che in parte è già stata cancellata”, conclude l’esponente dem.
Il prestito pensionistico può essere ottenuto anche dai lavoratori che hanno conseguito o conseguiranno l'Ape sociale. Per integrare il reddito ponte gratuito in attesa della pensione. La Circolare Inps numero 28 dello scorso 18 Febbraio 2018 ha aperto ufficialmente alla possibilità di cumulo dei due strumenti confermando quanto già anticipato su PensioniOggi lo scorso anno.
Con una differenza. Potrà essere finanziata, a differenza di quanto si era detto in passato, non solo la parte eccedente quella erogata tramite il sussidio statale ma l'intero assegno. Come se i due strumenti viaggiassero su binari completamente paralleli. Ad esempio un lavoratore con un assegno lordo di 2.800 euro al mese, cioè circa 2.000 euro al mese nette, che intende anticipare l'uscita di 36 mesi potrà riscuotere in anticipo il 75% di detto importo, cioè1.500 euro nette mensili. Che si potranno aggiungere, eventualmente, all'Ape sociale di 1.500 euro lorde al mese (circa 1.350 euro nette). Una semplificazione non indifferente per il pensionato.
Naturalmente il lavoratore per cumulare le prestazioni dovrà risultare in possesso dei requisiti per entrambi gli strumenti. Per l'Ape volontario dovrà verificare di trovarsi a non più di 3 anni e 7 mesi dalla pensione di vecchiaia e rispettare l'importo soglia di una pensione non inferiore a 700 euro al mese al netto della rata di ammortamento del prestito pensionistico, mentre per l'ape sociale dovrà trovarsi in uno dei quattro profili di tutela previsti dalla legge (disoccupato, invalido, caregiver, addetto a mansioni gravose) e soddisfare il previsto requisito contributivo (30 o 36 anni a seconda dei casi). Le quote mensili del prestito pensionistico, inoltre, non costituiscono reddito da lavoro nè sono soggette a prelievo irpef e, pertanto, non daranno luogo alla revoca dell'ape sociale.
L'ipotesi del cumulo va studiata con attenzione per ottimizzare il reddito disponibile durante la fase antecedente la pensione e, poi, il reddito da pensione. Il percettore dell'Ape sociale avrà dunque tutto l'interesse a ridurre la quota di Ape volontario in virtu' del fatto che già possiede un reddito di accompagnamento alla pensione. E a non chiedere la quota massima possibile. Ad esempio nell'esempio sopra esposto un titolare con già con 1.350 euro netti di ape sociale avrà interesse a chiedere una quota aggiuntiva tramite l'ape volontario di 500-750 euro al mese e non la cifra massima di 1.500 euro.
Si presti attenzione, infine, al fatto che la data di decorrenza dei due strumenti non coincide necessariamente. Per l'Ape sociale, infatti, occorre possedere 63 anni e, dato che la misura dura sino al 2018, si rivolge solo ai soggetti nati entro il 31 dicembre 1955 (salvo proroga) mentre l'Ape volontario interessa i nati entro il 31 luglio 1956 (anche qui salvo ulteriore proroga).
L'operazione naturalmente è facoltativa per l'interessato: si potrà anche non chiedere l'Ape volontario e tenersi solo la quota di reddito garantita dall'Ape sociale oppure, se del caso, integrare il sussidio solo con la Rita, la rendita integrativa temporanea anticipata. Ove si scegliesse di abbinare l'Ape sociale a quello volontario resterebbero però i divieti stabiliti per il sussidio agevolato. In particolare il pensionando avrà limitazioni sulla possibilità di rioccuparsi, non potrà trasferire la residenza all'estero e, se dipendente del pubblico, dovrà accettare uno slittamento nell'erogazione della buonuscita.
Non solo. L'Inps ha chiarito anche che il prestito pensionistico è cumulabile con qualsiasi strumento di sostegno al reddito. Pertanto anche un disoccupato che percepisce la naspi o l'indennità di mobilità potrebbe fare istanza per l'Ape volontario mixandolo dopo un periodo di tre mesi dall'esaurimento integrale della disoccupazione con l'Ape sociale. Le combinazioni possibili, come si nota, sono molteplici.
Doccia fredda per i pensionati che hanno debiti erariali. La legge di bilancio per il 2018 ha dimezzato da 10 a 5 mila euro il limite debitorio oltre il quale scatta l'obbligo per l'Inps a sospendere per 60 giorni il pagamento delle pensioni e delle buonuscite e a segnalare il nominativo all'agente di riscossione. Lo spiega lo stesso ente di previdenza nel messaggio numero 1085/2018, illustrando la novità della legge Bilancio 2018 che dal 1° marzo, ha ridotto il limite da 10 mila a 5 mila euro a partire dal quale è obbligatoria la verifica sui debiti erariali prima di pagare le prestazioni pubbliche.
Il controllo sui debiti erariali, propedeutico al pagamento di prestazioni, è disciplinato dall'art. 48-bis del dpr n. 602/1973. Prevede, in particolare, che amministrazioni pubbliche e società a prevalente partecipazione pubblica, prima di effettuare a qualunque titolo il pagamento di un importo superiore a 10 mila euro, sono tenute a verificare se il beneficiario sia inadempiente all'obbligo di versamento di una o più cartelle di pagamento il cui ammontare complessivo sia pari o superiore allo stesso importo (10 mila euro); in caso affermativo, prevede che non si proceda al pagamento della prestazione per un periodo di 30 giorni e che venga segnalata la circostanza all'agente della riscossione ai sensi del decreto del Ministro dell’Economia e delle Finanze 18 gennaio 2008, n. 40 (Modalità di attuazione dell'articolo 48-bis del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602.
L’art. 1, commi da 986 a 989, della legge 27 dicembre 2017, n. 205 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2018 e bilancio pluriennale per il triennio 2018 - 2020) ha apportato significative modifiche al citato art. 48 - bis del DPR n. 602, nonché al DM n. 40/2008. In particolare il legislatore ha ridotto da € 10.000 ad € 5.000 l’importo del pagamento oltre il quale le pubbliche amministrazioni devono obbligatoriamente attivare la procedura di verifica degli inadempimenti derivanti da cartelle di pagamento non saldate da colui che deve ricevere detto pagamento. Con una seconda modifica è stato elevato a 60 giorni l’intervallo di tempo durante il quale il soggetto pubblico che sta effettuando il pagamento deve sospendere lo stesso, o parte di esso, in attesa che l’agente della riscossione notifichi l’ordine di versamento delle somme dovute dal beneficiario del pagamento pubblico, ovvero che accadano altri eventi che abbiano l’effetto di eliminare le pendenze del medesimo beneficiario. La nuova soglia ed il nuovo termine di sospensione hanno effetto dal 1° marzo 2018.
L'Istituto comunica pertanto da questa data è attiva la procedura di verifica sui destinatari dei pagamenti a titolo d'indennità di fine servizio o di fine rapporto il cui importo netto arrivi o superi i 5 mila euro. Nel caso risulti l'inadempimento da parte del percettore la prestazione è accantonata e il relativo pagamento sospeso per un massimo di 60 giorni. Lo stesso è previsto anche in caso di pensioni d'importo pari o superiore a 5.000 euro. Infine, l'Inps ricorda che sono escluse dalla verifica le prestazioni assistenziali, le rendite Inail e le prestazioni erogate per conto di altri soggetti (es. assegni di solidarietà di settore)