14 Febbraio 2018
ANSA - Sono ormai alle limature finali le linee guida per i piani triennali sui fabbisogni della pubblica amministrazione. Istruzioni per l'uso su assunzioni, promozioni e trasferimenti di personale. Ciascuna amministrazione pubblica, infatti, dovrà attenersi a un programma, seppure 'elastico' (ogni anno potrà essere rimodulato). La ministra della P.A, Marianna Madia, dovrebbe portare il decreto con i nuovi "indirizzi" in Conferenza unificata il 22 febbraio. L'obiettivo è aiutare le amministrazioni a stendere i piani, visto che se sgarrano "non possono assumere nuovo personale".
Fra tre anni 900mila dipendenti pubblici over 60 (uno su tre)
Fonte:sole24ore di Gianni Trovati
La lotta all’evasione affidata a un esercito di over 60, che occupano più di un posto su tre nelle agenzie fiscali. E una folla ancora più fitta di ultra60enni negli enti pubblici «non economici» come l’Inps, nei ministeri e a Palazzo Chigi, dove la loro quota sale fino al 42,5 per cento. È la fotografia che sarà offerta dalla nostra Pubblica amministrazione fra tre anni, nel 2021. Ed è facile ricostruirla sulla base dei dati diffusi pochi giorni fa dalla Ragioneria generale con le classi di età dei dipendenti pubblici. Ma non è necessario avventurarsi nel futuro, peraltro molto prossimo, per vedere le dimensioni del fenomeno.
Già nel 2016, monitorato dall’ultimo conto annuale del personale pubblico, avevano raggiunto e superato la soglia dei 60 anni 496mila dipendenti pubblici, cioè il 18% di un totale che esclude solo le Forze Armate per le caratteristiche peculiari di carriera e pensionamenti. Ma è lo «scalone» in arrivo nei prossimi due-tre anni a sollevare le incognite più importanti per una Pa che dovrebbe puntare su digitalizzazione e innovazione dei processi, almeno secondo le strategie dichiarate in un diluvio di analisi sul tema. Strategie non facili da praticare con un organico in cui 913mila dipendenti con più di 60 anni rappresenteranno il 33,5% del totale, e 263mila persone (il 10% del totale) avranno superato anche quota 65 anni.
Attenzione: non si tratta solo della difficoltà, ovvia, che mediamente i dipendenti più anziani incontrano quando sono alle prese con una trasformazione digitale che per funzionare davvero avrebbe bisogno di una “rottura” culturale con le pratiche seguite fin qui. È anche una questione di motivazione, e di possibilità di superare procedure e abitudini organizzative consolidate nei decenni.
Visto in un’altra ottica, l’invecchiamento della Pa mette in agenda una maxi-staffetta generazionale, che in quattro anni potrebbe aprire le porte a 500mila nuovi ingressi. Ma il perimetro è disciplinato dalle regole del turn over, e non potrà crescere di dimensioni: di qui il peso in crescita degli over60.
Gli effetti della crisi
Una dinamica del genere è il risultato finale della crisi di finanza pubblica, che ha avuto una ricaduta doppia sul personale. La riforma previdenziale, scritta per allontanare un ulteriore rigonfiamento del debito pubblico, ha allungato la permanenza in ufficio. Ma questo effetto, generalizzato nel mondo del lavoro, nell’impiego pubblico si è accompagnato ai blocchi del turn over, che hanno ridotto al lumicino l’ingresso di nuove forze in organico. Dallo scorso anno, di manovra in manovra, le briglie si sono un po’ allentate, e stanno riportando in ampi settori della Pubblica amministrazione la possibilità di sostituire tutti i dipendenti che vanno in pensione. Ma a mancare sarà un’intera generazione di mezzo, bloccata dai lunghi anni dell’emergenza di finanza pubblica.
Il nodo delle stabilizzazioni
E gli effetti collaterali della crisi influenzano anche la ripartenza, come indica un’altra cifra. È quella delle oltre 50mila stabilizzazioni previste dal piano triennale straordinario introdotto dalla riforma Madia per assorbire il precariato “storico” (per salire sul treno servono almeno tre anni di anzianità maturata negli ultimi otto) fiorito in tanti settori della Pubblica amministrazione per tamponare (o aggirare) lo stop alle assunzioni. È un numero enorme, se si considera che negli ultimi 10 anni, teatro fra l’altro della maxi-stabilizzazione avviata dal Governo Prodi-bis con l’obiettivo dichiarato di risolvere «definitivamente» il problema, i precari assunti sono stati in tutto 77.730. Fra nuovi concorsi riservati e problemi di fondi, come mostra il caso dei ricercatori precari che rischiano di assorbire una parte degli integrativi oggi destinati al personale stabile, il ritorno alla normalità promette di essere lento.
Scuola, aumenti fra 80 e 110 euro
Fonte:sole24ore di Claudio Tucci
Per gli insegnanti, dai maestri di infanzia e primaria ai professori laureati delle superiori, arriva un aumento complessivo medio delle buste paga di 96 euro lordi al mese (si toccano picchi di poco più di 110 euro per i docenti delle superiori con elevata anzianità in classe). Per il personale tecnico-amministrativo (gli Ata) la busta paga cresce in media di 84,5 euro (si va da un minimo di circa 80 euro a un massimo di 89, anche qui in base agli anni di servizio). Per i docenti del settore Afam, l’Alta formazione artistica e musicale, l’aumento medio è di 105 euro; per l’università (sono esclusi i professori universitari) è di 82 euro, per ricercatori e tecnologici di 125 euro, per l’area amministrativa della ricerca, 92 euro, per l’Asi, l’Agenzia spaziale italiana, 118 euro. Sbloccati anche gli arretrati, “una tantum”, che a seconda del profilo, può arrivare fino a 600 euro.
Dopo una «no stop» di circa 16 ore, ieri mattina intorno alle 8, all’Aran, è arrivata la firma del contratto, per il triennio 2016-2018, del nuovo comparto «Istruzione e ricerca» che interessa quasi 1,2 milioni di dipendenti (di cui 1,1 milioni sono lavoratori, docenti e non, della scuola). Aumenti stipendiali (decorrenza 1° marzo 2018) e arretrati (2016, 2017 e gennaio, febbraio 2018) verranno accreditati sui cedolini «al termine dell’iter procedurale di controllo del testo contrattuale» (se tutto filerà liscio, quindi, queste risorse si potranno trovare già nelle buste paga di marzo).
L’ipotesi di intesa è stata siglata da Cgil, Cisl, Uil (e dalla rispettive categorie della scuola), non da Snals-Confsal e Gilda degli insegnanti. Soddisfatto il governo: per la ministra dell’Istruzione, Valeria Fedeli, l’accordo raggiunto, che arriva dopo otto anni di mancati rinnovi, «è un impegno mantenuto. Siamo riusciti a garantire aumenti superiori a quelli previsti dall’intesa del 30 novembre 2016»; sulla stessa lunghezza d’onda, la collega, e titolare della Pa, Marianna Madia: «Un riconoscimento giusto e doveroso a chi si occupa della formazione e crescita di bambini e ragazzi».
Gli aumenti
Per far salire gli aumenti lordi mensili sopra gli 85 euro medi, negoziati a novembre 2016 con i sindacati, si prevedono, nel nuovo contratto, due voci aggiuntive, rispetto al “tabellare”. Si tratta di un “elemento perequativo”, che per i docenti della scuola oscilla tra i 3 e i 19 euro, appannaggio essenzialmente delle qualifiche iniziali; e un ulteriore riconoscimento economico (Rpd, «Retribuzione professionale docenti») di un importo che varia da 10,50 euro per chi ha un’anzianità di servizio da 0 a 14 anni, a 12,80 euro nella fascia 15-27, fino a 15,70 euro per anzianità in classe oltre i 28 anni. Per finanziare, essenzialmente, quest’ultima voce vengono utilizzati 70 milioni quest’anno, 40 a regime, che vengono sottratti ai 200 milioni complessivi previsti dalla legge 107 e destinati a premiare gli insegnanti meritevoli (oltre a questo “furto”, nel contratto, si prevede pure la contrattazione dei criteri generali per determinare il bonus premiale, ferma restando la procedura di assegnazione che rimane in capo ai presidi). «Si cambia la destinazione di una parte delle risorse legate alla valorizzazione del merito dei docenti per distribuirle indistintamente sulla retribuzione di tutto il personale, diminuendone l’impatto economico e l’efficacia sul miglioramento del servizio - commenta, contrariata Licia Cianfriglia, dell’Anp, l’Associazione nazionale presidi -. La parte restante, poi, viene rimessa alla contrattazione decentrata. Anche in questo caso si contravviene ai dettami della legge».
Misure disciplinari
Scorrendo le 178 pagine dell’intesa spiccano le misure disciplinari per chi usa in modo improprio i canali di comunicazione informatici o i social per relazionarsi con gli studenti: i docenti che dovessero violare la fiducia accordatagli, mettendo in atto comportamenti o molestie di carattere sessuale nei confronti dei loro alunni, saranno licenziati (oggi al più scatta una sospensione cautelare). La più ampia questione disciplinare per i prof viene comunque rimandata a un’apposita sequenza contrattuale (l’ennesimo rinvio). Si prova, poi, a garantire la continuità didattica: dopo le deroghe degli ultimi tempi, torna il vincolo triennale nei trasferimenti dei docenti: gli insegnanti, cioè, dovranno rimanere per almeno tre anni nella scuola assegnata e richiesta volontariamente (per i residui trasferimenti su e da ambito è invece un nuovo “liberi tutti”).
Tra le altre novità, l’introduzione di norme di maggior favore per l’effettuazione di visite specialistiche ed esami diagnostici. Disco verde, pure, alla disciplina delle ferie solidali, che consente ai dipendenti con figli minori in gravi condizioni di salute, che necessitino di una particolare assistenza, di poter utilizzare le ferie cedute da altri lavoratori. Da segnalare, infine, le tutele introdotte per le donne vittime di violenza le quali, oltre al riconoscimento di congedi retribuiti, potranno avvalersi anche di una speciale aspettativa.
La designazione del Responsabile della Protezione dei dati (RDP) in base al regolamento UE 2016/679
Fonte: studio cataldi
Quali sono gli enti pubblici obbligati alla designazione del Responsabile della Protezione dei dati (RDP)?
Come precisato nella sezione Faq del Garante della Privacy il regolamento europeo non fornisce la definizione di "autorità pubblica" o "organismo pubblico" e, come chiarito anche nelle Linee guida adottate in materia, l'art. 29 ne rimette l'individuazione al diritto nazionale applicabile.
Aggiunge l'Autorità che "allo stato, in ambito pubblico, devono ritenersi tenuti alla designazione di un RPD i soggetti che oggi ricadono nell'ambito di applicazione degli artt. 18 - 22 del Codice, che stabiliscono le regole generali per i trattamenti effettuati dai soggetti pubblici (ad esempio, le amministrazioni dello Stato, anche con ordinamento autonomo, gli enti pubblici non economici nazionali, regionali e locali, le Regioni e gli enti locali, le università, le Camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura, le aziende del Servizio sanitario nazionale, le autorità indipendenti ecc.).
Occorre, comunque, considerare che, nel caso in cui soggetti privati esercitino funzioni pubbliche (in qualità, ad esempio, di concessionari di servizi pubblici), può risultare comunque fortemente raccomandato, ancorché non obbligatorio, procedere alla designazione di un RPD. In ogni caso, qualora si proceda alla designazione di un RPD su base volontaria, si applicano gli identici requisiti - in termini di criteri per la designazione, posizione e compiti - che valgono per i RPD designati in via obbligatoria".
Fonte: legge per tutti
Sono una dipendente dell’asl e usufruisco della legge 104 per entrambi i miei genitori. Ho diritto a chiedere l’esenzione dei turni notturni, che la mia azienda mi ha negato poiché ritiene che un’assistenza effettiva durante le ore notturne non può essere disgiunta da tale requisito?
L’esonero dai turni e le modalità per usufruire dei permessi ex L.104/92 sono regolamentati dagli artt. 42 e 53 del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 e del decreto legislativo 23 aprile 2003, n. 115.
Nello specifico, l’art. 53 letteralmente recita «non sono altresì obbligati a prestare lavoro notturno lalavoratrice o il lavoratore che abbia a proprio carico un soggetto disabile ai sensi della legge 5 febbraio 1992, n. 104, e successive modificazioni». Nessun riferimento è fatto allo stato di gravità o meno dell’assistito.
Il lavoratore o la lavoratrice che abbiano a proprio carico per prestargli assistenza in prima persona un soggetto disabile ai sensi della legge 104/92, pertanto, non sono obbligati a prestare lavoro notturno, compresi eventuali turni di reperibilità o di pronta disponibilità, equiparati al lavoro notturno.
Va ricordato, poi, che i requisiti di continuità ed esclusività dell’assistenza, un tempo essenziali per accedere al beneficio dei permessi 104/92 per prestare assistenza al familiare con grave disabilità, successivamentevariati nei termini di sistematicità e di adeguatezza dell’assistenza, sono stati eliminati dalla legge 183/2010.
Come ha ricordato l’I.n.p.s. (circolare n. 90/2007), va adottato il principio secondo cui «tale assistenza nondebba essere necessariamente quotidiana, purché assuma i caratteri della sistematicità e dell’adeguatezzarispetto alle concrete esigenze della persona con disabilità in situazione di gravità».
Ed infatti, scopo dei permessi e delle agevolazioni concesse dalla legge 104/92 è anche quello di consentire a coloro che hanno a carico un soggetto disabile di ricevere il giusto riposo per far fronte alla gravosa situazione.
Pertanto, non occorre che la lettrice assista i suoi genitori anche di notte, poiché il riposo serve al familiare per recuperare le energie per accudire al meglio il disabile.
In pratica, la lettrice ha pienamente diritto all’esonero dai turni di notte.
Cassazione: contestazione oltremodo tardiva e licenziamento
Fonte:DPL
Con sentenza n. 2513 del 31 gennaio 2018, la Corte di Cassazione ha affermato la illegittimità di un licenziamento ove la contestazione disciplinare (rifiuto di un trasferimento) era avvenuta a 15 mesi dal fatto.
Secondo i giudici della Suprema Corte il fatto è da ritenersi insussistente perché ha compromesso il diritto a difesa del lavoratore. Di conseguenza, i giudici hanno ritenuto applicabile la tutela reintegratoria prevista dall’art. 18, comma 4, della legge n. 300/1970, come riformato dalla legge n. 92/2012.
Non è possibile negare la pensione di reversibilità alla vedova separata con addebito di colpa in occasione della morte dell'ex coniuge. Perchè la legge non fa distinzione in ordine alle cause che hanno condotto alla separazione. E' il responso della Corte di Cassazione che con l'ordinanza numero 2606 del 2 Febbraio 2018 ha accolto il ricorso di una signora che si era vista negare dall'Inps il diritto alla prestazione di reversibilità una volta venuto a mancare l'ex coniuge.
La questione era sfociata in tribunale ma la Corte d'Appello di Bologna aveva dato ragione all'Inps. Secondo la Corte d'Appello, poiché la signora non fruiva di erogazione di alimenti in capo all'ex coniuge ed in suo favore, non poteva rivendicare dopo il decesso di costui l'attivazione di un trattamento previdenziale a suo vantaggio. In sostanza la corte d'Appello le aveva negato la pensione di reversibilità in quanto non era titolare di assegno di mantenimento all'atto del decesso del coniuge, assegno che non poteva essere erogato per via dell'addebito di colpa scaturente dalla separazione.
La signora ha, quindi, proposto ricorso per cassazione muovendo dall'assunto, ormai pacifico in giurisprudenza, secondo il quale la pensione di reversibilità va riconosciuta non solo al coniuge in favore del quale il coniuge defunto era tenuto a corrispondere un assegno di mantenimento, ma a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 286 del 1987, anche al coniuge separato per colpa o con addebito, equiparato sotto ogni profilo al coniuge (separato o non). La Corte di Cassazione ha accolto la domanda della ricorrente condannando l'Inps all'erogazione della prestazione di reversibilità.
Nelle motivazioni che hanno portato alla decisione i giudici ricordano che a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 286 del 1987 la pensione di reversibilità deve essere riconosciuta (anche) al coniuge separato per colpa o con addebito, equiparato sotto ogni profilo al coniuge superstite (separato o non). Dopo la riforma dell'istituto della separazione personale, introdotto dal novellato art. 151 c.c. e la sentenza della Corte Cost. non è, infatti, più giustificabile il diniego, al coniuge cui è stata addebitata la separazione, di una tutela che assicuri la continuità dei mezzi di sostentamento che il defunto coniuge sarebbe stato tenuto a fornirgli.
I giudici spiegano, pertanto, che, a prescindere dalla presenza di una separazione per colpa o per addebito, "è applicabile la L. 21 luglio 1965, n. 903, art. 22, il quale non richiede (a differenza che per i figli di età superiore ai diciotto anni, per i genitori superstiti e per i fratelli e sorelle del defunto, etc), quale requisito per ottenere la pensione di reversibilità, la vivenza a carico al momento del decesso del coniuge e lo stato di bisogno ma unicamente l'esistenza del rapporto coniugale col coniuge defunto pensionato o assicurato". Che non viene messo in discussione in caso di addebito di colpa nella separazione. "Lo scopo della tutela previdenziale è rappresentata, infatti, dall'intento di porre il coniuge superstite al riparo dall'eventualità dello stato di bisogno, senza che tale stato di bisogno divenga (anche per il coniuge separato per colpa o con addebito) concreto presupposto e condizione della tutela medesima" concludono i giudici nel dispositivo
Si sblocca la rendita integrativa temporanea anticipata. La Covip ha diffuso la Nota numero 888 dell'8 Febbraio 2018 in cui l'Istituto che vigila sulle forme di previdenza complementari recepisce le novità introdotte dal legislatore con la legge di bilancio per il 2018 per ampliare il perimetro di applicazione della RITA. La RITA, come noto, consiste nell’erogazione frazionata a cadenza mensile di parte o della totalità ( a seconda della scelta del lavoratore) del montante accumulato nel fondo di previdenza complementare sino al raggiungimento dell'età pensionabile di vecchiaia nel regime pubblico obbligatorio (66 anni e 7 mesi; 67 anni dal 2019).
Purtroppo sino ad oggi lo strumento non ha avuto alcuna diffusione in quanto la versione iniziale del progetto, contenuta nella legge di bilancio per il 2017 (legge 232/2016), ha agganciato l'erogazione della RITA alla certificazione da parte dell'Inps del possesso delle condizioni per ottenere l'Ape volontario, certificazione che ancora oggi non può essere ottenuta per i ritardi che si registrano nella partenza del prestito pensionistico, creando cioè un collo di bottiglia del tutto ingiustificato. Per questa ragione il legislatore è corso ai ripari svincolando, nel 2018, le condizioni per chiedere la RITA da quelle per chiedere l'Ape volontario.
a) lavoratori che cessino l’attività lavorativa e maturino l’età anagrafica per la pensione di vecchiaia nel regime obbligatorio di appartenenza entro i 5 anni successivi, nonché abbiano maturato alla data di presentazione della domanda di accesso alla RITA un requisito contributivo complessivo di almeno 20 anni nei regimi obbligatori di appartenenza;
b) ai lavoratori che risultino inoccupati per un periodo di tempo superiore a 24 mesi e che maturino l’età anagrafica per la pensione di vecchiaia nel regime obbligatorio di appartenenza entro i 10 anni successivi.
In entrambi i casi è necessario che l'iscritto possa far valere almeno cinque anni di iscrizione alle forme pensionistiche complementari. Si tratta di una semplificazione evidente soprattutto per quanto riguarda i lavoratori nel profilo a). Questi soggetti sino allo scorso anno potevano ottenere lo strumento solo in presenza delle condizioni per l'Ape volontario, solo nel periodo tra il 1° maggio 2017 ed il 31 dicembre 2018, e previa certificazione da parte dell'Inps dei requisiti per tale prestazione (63 anni, 20 anni di contributi, 3 anni e 7 mesi dall'età di vecchiaia, eccetera). Con la novella della legge di bilancio la Rita potrà essere concessa quindi con un anticipo sino a cinque anni (ad esempio dai 61 anni e 7 mesi di età) contro i 43 mesi previsti in origine che diventano dieci per i disoccupati da oltre 24 mesi. La misura, inoltre, è stata stabilizzata anche oltre il 2018.
La Covip ricorda, infine, che in caso di decesso dell'iscritto in corso di percezione della RITA, il residuo montante corrispondente alle rate non erogate, ancora in fase di accumulo, potrà essere riscattato in base alle normali regole; che le quote di erogazione sono soggette ai medesimi limiti di cedibilità, sequestrabilità e pignorabilità previsti con riferimento alle normali prestazioni complementari e che l'iscritto può esercitare la facoltà di revocare l'erogazione della RITA sulla base delle modalità stabilite da ogni forma pensionistica.
A seguito dell'adozione del predetto documento le forme pensionistiche complementari che entrano nel perimetro di applicazione della RITA (fondi pensione negoziali, fondi pensione aperti, PIP, e fondi pensione preesistenti purchè non a prestazione definita) dovranno procedere all'aggiornamento dei relativi statuti e regolamenti per consentire così la reale adesione degli iscritti allo strumento.
Calcola la Rendita Integrativa Temporanea Anticipata
Da quest'anno i lavoratori che hanno contribuito presso forme di previdenza complementare avranno finalmente la facoltà di riscuotere la Rendita Integrativa Temporanea Anticipata (RITA). La Rendita Anticipata è uno strumento di flessibilità che consente la corresponsione di un reddito corrisposto con cadenza mensile per raggiungere la pensione di vecchiaia utilizzando il capitale accumulato dal lavoratore nel fondo di previdenza integrativa con l'applicazione di un regime di tassazione agevolato. Il progetto è stato introdotto dalla legge di bilancio per il 2017 e poi recentemente modificato dalla legge di bilancio per il 2018 che ha eliminato le diverse restrizioni che ne avevano impedito il decollo.
L'operazione consiste, in sostanza, nell'erogazione frazionata di parte o dell'intero capitale accantonato nel fondo di previdenza integrativo per garantire all'interessato un reddito (entro un massimo di 10 anni) sino al raggiungimento della pensione pubblica. Lo strumento è molto flessibile in quanto consente all'interessato di scegliere quanta parte del capitale accumulato farsi erogare in anticipo e quanta lasciarne presso il Fondo.
A seguito delle novelle apportate dal legislatore con la legge di bilancio 2018 dal 1° gennaio 2018 alla RITA potranno accedere due tipologie di soggetti: a) lavoratori che cessino l’attività lavorativa e maturino l’età anagrafica per la pensione di vecchiaia nel regime obbligatorio di appartenenza entro i 5 anni successivi, nonché abbiano maturato alla data di presentazione della domanda di accesso alla RITA un requisito contributivo complessivo di almeno 20 anni nei regimi obbligatori di appartenenza; b) lavoratori che risultino inoccupati per un periodo di tempo superiore a 24 mesi e che maturino l’età anagrafica per la pensione di vecchiaia nel regime obbligatorio di appartenenza entro i 10 anni successivi. In entrambi i casi è necessario che l'interessato possa vantare almeno cinque anni di iscrizione alle forme di previdenza complementari.
L'operazione viene, inoltre, incentivata fiscalmente, prevedendo che la parte imponibile della RITA – sia che costituisca l’intero importo della prestazione complessivamente maturata presso il fondo pensione che una quota parte dello stesso – sia assoggettata a tassazione con la ritenuta a titolo d'imposta con l'aliquota del 15 per cento ridotta dello 0,3% per ogni anno eccedente il quindicesimo anno di partecipazione a forme pensionistiche complementari, con un limite massimo di riduzione di 6 punti percentuali.
Il programma sottostante elaborato da PensioniOggi.it consente, pertanto, al lavoratore di avere un'idea abbastanza precisa dell'importo della rendita integrativa a cui è possibile aspirare sulla base del capitale accumulato nel fondo di previdenza integrativo.