I sindacati lo hanno capito. E stanno puntando i piedi. Per le prossime ore, il 14 dicembre, Flc Cgil, Cisl Scuola, Uil Scuola Rua e Snals Confsal hanno organizzato un’assemblea pubblica davanti a Montecitorio: lo faranno, annunciano, “insieme alle lavoratrici e ai lavoratori chiedere alla politica di assumersi le proprie responsabilità. Occorre accelerare e chiudere il negoziato per il rinnovo del contratto”.
Meno di 85 euro non si può
“È inaccettabile – spiegano – la situazione di stallo della trattativa per il rinnovo del contratto. Siamo a un anno dall’accordo del 30 novembre 2016 di palazzo Vidoni, a sei mesi dalla riforma del testo unico sul Pubblico impiego, a un mese dall’invio dell’atto di indirizzo e ancora il negoziato non decolla. E sono ormai passati otto anni dalla scadenza dell’ultimo contratto”.
E ancora: “trasformare gli aumenti in percentuali sposta gli equilibri e avvantaggia chi ha retribuzioni più alte, penalizzando paradossalmente quelle più basse, diversamente da quanto prevede l’intesa di Palazzo Vidoni. Nessuno può ritenere che gli 85 euro possano rappresentare il recupero del potere d’acquisto perso in questi anni, né colmare la distanza che separa gli stipendi del comparto da quelli di altri Paesi; pensare addirittura di ridurli appare come una vera provocazione”.
I sindacati concludono con una sorta di ultimatum: “Quello che la ministra Fedeli definisce oggi ‘atto doveroso’ deve tradursi in scelte contrattuali coerenti e conseguenti”.
È notizia dell’ultima ora che la soluzione al problema della Scuola potrebbe passare per una clausola che ammortizzi i divari di aumento. E non è escluso che una parte, seppure piccola, sia resa omogenea per tutti: si potrebbe inserire, a questo scopo, la nuova voce “welfare”. Ma per il momento sono solo indiscrezioni, ma in effetti urgono soluzioni. Altrimenti, con la fine della legislatura i tempi si allungherebbero in modo impressionante.
Verso la proroga di un anno dei contratti di collaborazione nella Pa
Fonte:sole24oredi Claudio Tucci
Governo e maggioranza aprono alla possibilità di prorogare, ancora di un anno, i contratti di collaborazione nel settore pubblico. La questione è stata al centro della lunghissima riunione di maggioranza, terminata stamane alle ore 5, in vista del voto sugli emendamenti alla manovra che riprenderà nel primo pomeriggio in commissione Bilancio della Camera.
Il tema è delicato, e sollevato da alcuni parlamentari dem. La riforma Madia, con l'obiettivo di allineare la disciplina nella Pa con quella del settore privato, dove per effetto del Jobs act le collaborazioni sono vietate già da un anno, fa scattare da gennaio 2018 il divieto da parte delle amministrazioni di stipulare contratti di collaborazione aventi ad oggetto prestazioni personali, con previsione di orario e sede di lavoro. Il piano di stabilizzazione dei precari pubblici non è ancora concluso; e quindi, con questa previsione, i rapporti di collaborazione in corso finirebbero per scadere a fine dicembre, senza possibilità di rinnovi.
La «tagliola» slitta di un anno
Le collaborazioni nella Pa sono ancora diverse migliaia, concentrate negli enti locali, nel settore della giustizia e nella scuola (i bidelli, e il personale delle segreterie, ex Lsu). L'idea del governo, da tradurre ora in una norma da inserire in legge di Bilancio, è di far slittare di un anno la “tagliola”, consentendo, quindi, ancora nel 2018, le collaborazioni nel settore pubblico.
Contratti a termine e indennizzi
I due nodi caldi sul lavoro - durata massima dei contratti a termine e indennizzi minimi in caso di licenziamenti illegittimi - saranno probabilmente sciolti nel pomeriggio. Al momento sembra probabile un correttivo sui rapporti temporanei, per ridurre la durata massima, da 36 a 24 mesi, e le proroghe, da 5 a 3. Sugli indennizzi minimi, la proposta di una fetta del Pd è passare da 4 a 6/8 mensilità, ma il governo continua a far muro: non ci sono numeri che facciano pensare a un boom di licenziamenti da gennaio; e peraltro i valori degli indennizzi monetari fissati dal Jobs act sono i più alti nel confronto internazionale, dicono alcuni esponenti di governo.
Concorsi: no ai limiti di altezza uguali per uomo e donna
FONTE:https://www.laleggepertutti.it/
È discriminatoria la previsione, in un bando di concorso, di un unico limite di altezza per uomini e donne, perché finisce per pregiudicare queste ultime.
Che l’altezza delle donne sia, in media, inferiore a quella degli uomini è un dato obiettivo che ben intuisce anche chi non conosce le statistiche ufficiali. Statistiche che, per quanto riguarda l’Italia, vedono l’uomo con una statura media di 1,77 metri e la donna di 1,64. Se ci spostiamo in Germania, gli uomini misurano 1,79 metri e il gentil sesso 1,66. In Montenegro si toccano i record: 1,85 i maschi e 1,73 le femmine a fronte invece di 1,62 e 1,52 in Vietnam. I tanti osannati svedesi arrivano a 1,80 metri e 1,67, rispettivamente uomini e donne. Se così ha voluto la natura bisogna solo prenderne atto e nessuno – fino ad oggi – ha fatto di ciò un motivo di discriminazione. Tranne la nostra pubblica amministrazione che, evidentemente, quando pubblica i bandi di concorso trascura questo fondamentale dettaglio. È successo a Trenitalia (ma a questo punto ci sarebbe da rivedere tutti i bandi nelle P.A. italiane) dove, nell’indire un posto per capotreno, sono stati posti dei limiti di altezza. O meglio, un unico limite di altezza: uguale per uomini e donne. Chiaramente, questo discorso finisce per penalizzare il sesso «naturalmente» più basso. E di tanto si è accorta la Cassazione con una sentenza pubblicata ieri [Cass. sent. n. 30083/17 del 14.12.2017.]. Secondo la corte sono discriminatori i limiti di altezza uguali per uomo o donna.
Nel 1993 la Corte Costituzionale [C. Cost. sent. n. 163/1993.] si era già trovata ad affrontare lo stesso problema e, nell’analizzare i requisiti per l’accesso alle carriere direttiva e di concetto del ruolo tecnico di una pubblica amministrazione aveva censurato l’indicazione, come criterio di selezione, del «possesso da parte dei candidati – tanto di sesso maschile, quanto di sesso femminile – di una determinata statura minima». In quella sentenza era stato detto che «la previsione di una statura minima identica per gli uomini e per le donne costituirebbe un’irragionevole sottoposizione a un trattamento giuridico uniforme di categorie di persone caratterizzate, in base ai dati desumibili da una media statistica, da stature differenti».
In sostanza, secondo i Giudici della Consulta ci si trova a una evidente discriminazione ai danni delle donne.
Tali principi sono stati ripresi quindi dalla Cassazione che ha accolto il ricorso di aspiranti candidate al concorso, tuttavia rifiutate perché ritenute troppo basse alla prova di idoneità fisica. Il deficit staturale però era stato valutato con un unico criterio di riferimento, sia per uomini che per donne. Detto in parole povere, era stata bruciata una carriera per qualche centimetro in meno.
La selezione in un concorso che non distingue l’altezza tra uomini e donne è non solo illegittima ma anche incostituzionale. E ciò non vale solo ai fini dell’assunzione ma anche di una eventuale promozione. La Corte ha precisato che devono essere disapplicati tutti quegli atti amministrativi che ingiustificatamente non tengono conto della identità o diversità delle situazioni soggettive fisiche imposte dalla natura.
Congedo per malattia: se le ore di visita sono inferiori a quelle della giornata lavorativa?
L'Esperto Risponde
Fonte:ilpersonale
Pubblichiamo la risposta dell’Esperto, Vincenzo Giannotti, ad un quesito formulato da un nostro abbonato sulla possibilità di riconoscere un giorno di congedo per malattia, anche se gli orari attestati della visita o della prestazione abbiano durata inferiore alla giornata lavorativa.
» Quesito
Con riferimento a quanto previsto dall’art. 55-septies comma 5-ter del D.lgs. n.165/2001, in attesa che i nuovi CCNL regolamentino specificamente la tematica, si chiedono i seguenti chiarimenti:
1. al dipendente che ne presenta richiesta con apposita attestazione rilasciata dal medico o dalla struttura, può essere riconosciuto un giorno dicongedo per malattia, anche se gli orari attestati della visita o della prestazione abbiano durata inferiore alla giornata lavorativa?
2. Il regime economico di tale assenza riguarda solamente il computo del periodo di comporto o anche la decurtazione del trattamento accessorio prevista per le assenze per malattia, inferiori a 10 giorni?
» Risposta
Dopo le sentenze del TAR n. 5711/2015 e n. 5714/2015 che hanno annullato la parte della circolare della Funzione Pubblica che imponeva ai dipendenti pubblici di avvalersi obbligatoriamente dei permessi per documentati motivi personali per giustificare l’assenza dovuta all’effettuazione di visite, terapie, prestazioni specialistiche od esami diagnostici, le stesse possono essere imputate ai dipendenti anche a malattia.
Nel caso in cui le stesse siano imputate a malattia il dipendente avrà cura di giustificare la propria assenza presentando un certificato del proprio medico di base o dello specialista che attesti tale necessità e indichi quando e dove sarà effettuata la prestazione, trasmettendo copia del certificato per via telematica all’Inps. Il dipendente presenterà successivamente al datore di lavoro l’attestazione della struttura medica che ha erogato la prestazione. L’assenza per malattia, non essendo frazionabile, sarà presa per l’intera giornata con la relativa riduzione per il salario accessorio. Risulta evidente come in mancanza della procedura per malattia, al dipendente non resta che la soluzione di fruire del permesso breve, per motivi personali o fruendo della banca delle ore qualora attivata dall’ente.
Whistleblowing è legge
Fonte:ilpersonale
È stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale la legge n. 179/2017 che disciplina il “whistleblowing”, ossia la segnalazione di reati o irregolarità da parte dei lavoratori pubblici e privati.
Da oggi saranno tutelati i lavoratori dipendenti che segnalano reati o irregolarità di cui siano venuti a conoscenza nell’ambito di un rapporto di lavoro pubblico o privato.
La legge assicura la riservatezza dell’identità del segnalante e introduce sanzioni nei confronti di chi effettui, con dolo o con colpa, segnalazioni che si rivelino infondate.
Il testo legislativo pubblicato in Gazzetta modifica l’articolo 54-bis (“Tutela del dipendente pubblico che segnala illeciti”) del D.lgs. n. 165/2001. La norma ha poi esteso anche al settore privato le tutele, pur se con molti sostanziali distinguo. Infatti anche il Sole 24 Ore evidenzia come il legislatore ha scelto di creare un doppio binario tra pubblico impiego e lavoro privato, con una differenza rilevante in termini di tutele spettanti al soggetto segnalante.
Contenuti della legge
1. La segnalazione del dipendente deve avere come interesse esclusivo quello dell’integrità della pubblica amministrazione.
Risulta così esclusa la rilevanza di quelle segnalazioni che sottendono la finalità di cagionare un danno al destinatario della stessa, ciò allo scopo di evitare di incoraggiare le vendette trasversali.
2. Eliminazione del requisito della “buona fede” del segnalante.
3. Scomparsa del “superiore diretto” per la ricezione della segnalazione.
Il destinatario “interno” della comunicazione del dipendente non è più il superiore gerarchico, evidentemente ritenuto troppo vicino.
4. Estensione delle misure ritenute ritorsive.
Espressamente aggiunti il demansionamento e il trasferimento nonché, residualmente, “altra misura organizzativa avente effetti negativi”. Gli effetti di tali misure, pur se ritorsive, devono essere, comunque, realmente negativi (non solo diretti, peraltro, ma anche indiretti, con ciò aumentando sostanzialmente l’efficacia della tutela).
5. Estensionedella tutela ad altri dipendenti oltre a quelli della PA.
Il soggetto legittimato alla segnalazione, non è più, genericamente, il “dipendente pubblico”, bensì il lavoratore delle amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2 dello stesso decreto 165, ivi comprese le pubbliche amministrazioni in regime di diritto pubblico (all’articolo 3), gli entri pubblici economici ovvero di diritto privato sottoposti a controllo pubblico ai sensi dell’articolo 2359 del codice civile.
Da PensioniOggi:
Pensioni, Quando si può rinunciare all'accredito del servizio militare
· FONTE:PENSIONIOGGI Scritto da Valerio Damiani
L'Inps chiarisce i limiti all'esercizio del diritto alla rinuncia dell'accredito dei periodi di servizio militare per i dipendenti del settore pubblico.
Anche i dipendenti pubblici possono chiedere la rinuncia al riconoscimento del periodo di servizio militare. A condizione però che il periodo non abbia determinato il passaggio dal sistema contributivo al sistema misto. Lo comunica l'Inps con il messaggio 4987 del 12 Dicembre 2017 a seguito di numerose richieste di chiarimento in merito alla possibilità, da parte degli iscritti alla gestione dei dipendenti pubblici. La richiesta di rinuncia è stata infatti riscoperta in questi ultimi anni per i lavoratori del settore pubblico che a causa dell'accredito del servizio militare sono risultati destinatari del sistema misto invece che del sistema contributivo.
L'Istituto precisa che il servizio militare è un periodo di contribuzione figurativa il cui accredito è previsto a domanda da parte dell'interessato e, pertanto, in analogia a quanto già previsto per gli iscritti all’assicurazione generale obbligatoria, gli interessati possono chiedere di rinunciare all’accredito ai fini pensionistici quando lo stesso periodo non sia già stato utilizzato per la liquidazione di precedenti prestazioni. Non è possibile rinunciare all'accredito, ad esempio, quando sia stata già liquidata una pensione.
I limiti al diritto di rinuncia
L'indicata facoltà trova inoltre un ulteriore importante limite nel suo esercizio laddove l'accredito del servizio militare abbia determinato il passaggio del lavoratore dal sistema contributivo al sistema misto. Cioè sia stato l'unico evento che ha determinato la presenza di contribuzione antecedente al 1996. Nello specifico l'Istituto indica che se l'accredito del servizio militare fa assumere al lavoratore la qualità di "vecchio iscritto", cioè determina l'accredito di contribuzione antecedente al 1996 con conseguente passaggio al sistema misto e disapplicazione del massimale contributivo, il lavoratore non potrà più rinunciare all'accredito del periodo di contribuzione figurativa dato che, in questo caso, il servizio militare è stato virtualmente utilizzata per la determinazione delle regole di calcolo della pensione. Ciò vale esclusivamente nel caso in cui il riconoscimento del periodo di servizio militare, ante 1996, sia stata la causa unica e determinante della effettiva disapplicazione del massimale contributivo e cioè del passaggio al sistema misto. Ove invece il periodo di servizio militare sia risultato ininfluente a determinare il passaggio al sistema misto il lavoratore può rinunciare all'accredito. Tale regola, peraltro, era stata già sancita nei confronti dei lavoratori del settore privato con la Circolare Inps 11/2013. Pertanto l'Inps non fa altro che estendere la normativa nei confronti del pubblico impiego a seguito della soppressione dell'Inpdap.
L'istituto rammenta che la facoltà di rinuncia in esame è limitata agli eventi figurativi riconoscibilia domanda dall’interessato e, dunque, riguarda gli iscritti alle sole ex casse di previdenza amministrate dal Tesoro (Cpdel, CPI, CPS e CPUG) non potendo costituire oggetto di rinuncia la contribuzione figurativa accreditabile d’ufficio, come nel caso del servizio militare per gli iscritti alla Cassa dei Trattamenti Pensionistici Stato (CTPS) cioè per i dipendenti civili e militari dello stato a cui si applica il DPR 1092/1973.
Pensione a 64 anni, ecco le nuove regole Guida in ALLEGATO
Fonte:pensionioggi
*La Riforma Fornero ha riconosciuto la possibilità di un pensionamento anticipato all'età di 64 anni per i lavoratori dipendenti del settore privato che hanno maturato la vecchia quota 96 entro il 2012.
Assegno Sociale, Inps: Dal 2018 occorrono 66 anni e 7 mesi
· Fonte:pensionioggi Scritto da Giorgio Gori
L'Inps detta le istruzioni relative all'innalzamento stabilito dalla Riforma Fornero. Coinvolti anche gli assegni sociali sostitutivi delle prestazioni di invalidita' civile.
Dal prossimo anno i requisiti anagrafici per conseguire l'assegno sociale saliranno a 66 anni e 7 mesi. Lo mette nero su bianco l'Inps nel messaggio 4920/2017 diffuso ieri in cui detta alcune istruzioni agli operatori del settore. L'innalzamento è stato stabilito dall'articolo 24, comma 8, del decreto legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito con modificazioni dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214 (Riforma Fornero) a decorrere dal1° gennaio 2018.
L'incremento, ricorda l'Inps, coinvolge anche il requisito anagrafico per conseguire l’assegno sociale sostitutivo della pensione d’inabilità civile e dell’assegno mensile di assistenza agli invalidi parziali di cui all’articolo 19 della legge 30 marzo 1971, n. 118, nonché dell’assegno sociale sostitutivo della pensione non reversibile ai sordi di cui all’articolo 10 della legge 26 maggio 1970, n. 381, che dunque, dal 1° gennaio 2018, potranno essere concesse a partire dai 66 anni e 7 mesi rispetto agli attuali 65 anni e 7 mesi. I titolari di prestazioni di invalidità civile, pertanto, dovranno attendere i 66 anni e 7 mesi per vedere trasformata la prestazione in assegno sociale (che, come noto, porta in dote un incremento dell'importo erogabile).
Le prestazioni di InvCiv saranno corrisposte sino a 66 anni e 7 mesi
Per effetto dell’innalzamento del requisito anagrafico, a decorrere dal 1° gennaio 2018, la pensione d’inabilità civile e l’assegno mensile di assistenza agli invalidi parziali di cui agli articoli 12 e 13 della legge 30 marzo 1971, n. 118, nonché la pensione non reversibile ai sordi di cui alla legge 26 maggio 1970, n. 381, saranno concesse, a seguito del riconoscimento sanitario e sussistendo le altre condizioni socio economiche previste, a soggetti di età non inferiore al diciottesimo anno e fino al compimento delsessantaseiesimo anno e sette mesi d’età.
L'Inps informa, inoltre, che resta confermato il previgente requisito anagrafico per coloro che compiono sessantacinque anni e sette mesi prima del 1° gennaio 2018, a prescindere dalla data della domanda di assegno sociale. Costoro, pertanto, qualora presentino domanda successivamente al 1° gennaio 2018, in caso di accoglimento, avranno diritto all’assegno con decorrenza dal mese successivo a quello della domanda (art. 26, comma 12, L. 153/1969).
Pensioni, Il testo dell'emendamento che amplia l'Ape social
· Fonte:pensionioggi Scritto da Bernardo Diaz
In anteprima il testo della misura che amplia da 11 a 15 le mansioni cd. gravose destinatarie dell'Ape sociale e del beneficio precoci.
Pubblichiamo in anteprima l'emendamento governativo alla legge di bilancio con il quale è stato disposto l'ampliamento della platea dei beneficiari dell'Ape sociale e del pensionamento con 41 anni di contributi. Come già anticipato da pensionioggi.it la misura contiene l'allargamento degli anticipi pensionistici a un totale di 15 categorie di lavori "gravosi", assorbendo quindi le 4 categorie in più per le quali, dopo l'accordo con i sindacati, è già stato deciso al Senato lo stop all'allungamento dell'età pensionabile.
Si tratta dei siderurgici di prima e seconda fusione e lavoratori del vetro addetti a lavori ad alte temperature non già ricompresi nel perimetro dei lavori usuranti; degli operai dell'agricoltura, della zootecnia e pesca; dei marittimi imbarcati a bordo e personale viaggiante dei trasporti marini ed acque interne; dei pescatori della pesca costiera, in acque interne, in alto mare dipendenti o soci di cooperative.
Anche queste quattro categorie potranno dal prossimo anno conseguire l'Ape sociale dai 63 anni unitamente a 36 anni di contributi oppure uscire con la pensione anticipata con 41 anni di contributi se soddisfano i requisiti del lavoro precoce (12 mesi di attività di lavoro effettiva prima del 19° anno). Da segnalare un correttivo dell'ultim'ora: per rientrare nei benefici, le mansioni gravose potranno risultare svolte per almeno sei anni negli ultimi sette oppureper almeno sette anni negli ultimi dieci antecedenti il pensionamento. Qui ulteriori dettagli sulle modifiche approvate.
L'esecutivo ha, inoltre, accolto parte delle richieste che pervenivano dalla parte sindacale volte a rimuovere le restrizioni per rietrare nel perimetro dei lavori gravosi. In particolare con riferimento alla nuova categoria dei lavoratori dipendenti operai dell'agricoltura e della zootecnia la soddisfazione dei requisiti dei sei o sette anni di attività gravosa prima del pensionamento avverrà assumendo a riferimento per il computo integrale dell'anno di lavoro il numero minimo di giornate di cui all'articolo 9-ter, comma 4, secondo periodo, del decreto-legge 10 ottobre 1996, n. 510, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 novembre 1996, n. 608 (basteranno cioè 156 giornate di lavoro l'anno per integrare l'anno di lavoro senza il rischio che il periodo di disoccupazione agricola comporti l'esclusione dal beneficio). Viene inoltre abolito il vincolo di una tariffa Inail del 17 per mille per tutte le professioni gravose stabilito in un primo tempo dai DPCM 87 e 88 del 23 Maggio 2017. Si tratta di due modifiche che semplificheranno le procedure di accesso per gli aventi diritto. Con riferimento ai lavoratori che chiedono l'Ape sociale si prevede, inoltre, l'aggiunta di una terza data per la presentazione dell'istanza di verifica delle condizioni: oltre al 31 marzo 2018 i lavoratori potranno produrre l'istanza anche entro il 15 luglio 2018. Resta ferma l'istanza tardiva al 30 novembre 2018.
Si rammenta che è confermato lo sconto contributivo rafforzato per ottenere l'Ape sociale per le donne (un anno per ogni figlio entro un massimo di due anni) ed il fondo per la proroga dell'Ape sociale con la possibilità di arrivare sino al 31 dicembre 2019 nonchè l'estensione dell'Ape sociale e del beneficio precoci anche a coloro che assistono parenti entro il secondo grado.
Pensioni, Cosa Cambia per chi assiste un disabile grave
· Fonte:pensionioggiScritto da Valerio Damiani
Dal prossimo anno l'Ape agevolato e il pensionamento con 41 anni di contributi sarà esteso anche ai familiari che assistono coniuge o parenti disabili entro il 2° grado.
Si rafforzano leggermente gli anticipi pensionistici per i soggetti che assistono un familiare in condizione di disabilità. La Commissione Bilancio di Montecitorio ha approvato l'altro giorno un emendamento al testo della legge di bilancio presentato da Maria Luisa Gnecchi (Pd) che amplia il perimetro dell'Ape sociale e del beneficio contributivo per i lavoratori precoci anche a coloro che prestano assistenza ad un parente o un affine disecondo grado convivente qualora i genitori o il coniuge della persona con handicap in situazione di gravità abbiano compiuto i settanta anni di età oppure siano anch'essi affetti da patologie invalidanti o siano deceduti o mancanti.
Anche questi soggetti avranno, dunque, dal 1° gennaio 2018 la facoltà di fruire dell'APE sociale a partire dai 63 anni con un minimo di 30 anni di contributi oppure accedere alla pensione anticipata con 41 anni di contributi a prescindere dall'età anagrafica se ha svolto almeno 12 mesi di lavoro effettivo prima del 19° anno di età.
Destinatari delle agevolazioni restano sia lavoratori dipendenti, anche del pubblico impiego, sia i lavoratori autonomi iscritti presso le gestioni speciali (Art.Com.Cd) nonchè presso la gestione separata dell'Inps mentre restano fuori dai benefici i professionisti per i quali la legge richiede l'iscrizione ad un apposito albo professionale (es. avvocati). Sono ammessi al beneficio anche coloro che hanno perso l'occupazione al momento della domanda.
La questione
Attualmente le due agevolazioni previdenziali sono rivolte esclusivamente a coloro che accudiscano da almeno sei mesi il coniuge, la parte dell'unione civile (a seguito dell'equiparazione con il coniuge offerta dalla legge 76/2016), il parente entro il primo grado conviventi affetti da gravi disabilità come accertata ai sensi dell'articolo 3 co. 3 della legge 104/92. Si tratta cioè da handicap la cui la minorazione, singola o plurima, abbia ridotto l'autonomia personale, correlata all'eta', in modo da rendere necessario un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale nella sfera individuale o in quella di relazione, la situazione assume connotazione di gravita'.
La modica approvata dalla Commissione Bilancio estende i due ordini di benefici anche a coloro che prestano assistenza ad un parente o un affine di secondo grado convivente qualora i genitori o il coniuge della persona con handicap in situazione di gravità abbiano compiuto i settanta anni di età oppure siano anch'essi affetti da patologie invalidanti o siano deceduti o mancanti. Ad esempio potrà così fruire del pensionamento anticipato anche il fratello della persona assistita o della moglie ove il coniuge sia mancato e i genitori della persona da assistere hanno più di 70 anni e, dunque, non in condizione di poter effettuare l'assistenza. O ancora il nonno per assistere il nipote invalido ove i genitori risultino deceduti o mancanti.
I benefici
I lavoratori che si trovano in tali condizioni potranno fruire sino al 31 dicembre 2018 (salvo proroga), nel rispetto di un vincolo di bilancio, al raggiungimento dei 63 anno di età unitamente al possesso di almeno 30 anni di contributi dell'APe sociale, cioè di un sussidio di accompagnamento alla pensione il cui valore è rapportato alla misura della pensione determinata al momento della richiesta di APE entro un massimale di 1.500 euro lordi al mese (poco più di 1.300 euro netti mensili) non rivalutabili annualmente. Il sussidio sarà erogato per 12 mesi l'anno e cesserà al raggiungimento dell'età per la pensione di vecchiaia, ovvero a 66 anni e 7 mesi (più i futuri adeguamenti alla speranza di vita) o, se viene raggiunta prima, alla pensione anticipata. Potranno conseguire il beneficio anche se titolari di pensione ai superstiti. Per le lavoratrici madri il predetto requisito contributivo di 30 anni potrà essere ridotto di un anno per ogni figlio entro un massimo di 2 anni.
In alternativa i lavoratori in questione potranno pensionarsi in anticipo al raggiungimento di 41 anni di contributi a prescindere dall'età anagrafica se hanno svolto almeno 12 mesi di lavoro effettivo prima del 19° anno di età. In tal caso essi conseguiranno una pensione vera e propria senza limiti, tetti o decurtazioni entro però un vincolo di risorse annualmente fissato dalla Legge di Bilancio. L'agevolazione sulla quota 41 è invece strutturale
Congedo di Maternità, Chiarimenti in ordine all'accredito ai fini pensionistici
· FONTE:PENSIONIOGGI Scritto da Davide Grasso
Non è possibile chiedere l'accredito figurativo nella gestione pubblica ove al momento dell'evento maternità fosse in corso un rapporto di lavoro dipendente nel settore privato.
La presenza di un rapporto di lavoro dipendente nel settore privato al momento dell'astensione obbligatoria per maternità impedisce l'accredito della contribuzione figurativa nella gestione pubblica. Lo precisa l'Inps nel messaggio 4988 del 12 Dicembre 2017 in cui illustra alcuni dettagli in merito alle modalità di accredito figurativo per maternità ai sensi dell’art. 25 del D. lgs. n. 151/2001.
Com’è noto, la disposizione da ultimo richiamata prevede in favore dei soggetti iscritti al fondo pensioni lavoratori dipendenti e alle forme sostitutive ed esclusive dell’assicurazione generale obbligatoria che i periodi corrispondenti ai congedi di maternità e paternità, di cui agli artt. 16 e 17 dello stesso decreto legislativo, per eventi verificatesi al di fuori del rapporto di lavoro, sono considerati utili ai fini pensionistici, a condizione che il soggetto possa far valere all’atto della domanda di accredito almeno cinque anni di contribuzione versata in costanza di rapporto di lavoro.
La norma, in sostanza, consente alla lavoratrice di non perdere la contribuzione figurativa, utile sia ai fini del diritto che della misura della pensione, per i periodi corrispondenti all'astensione obbligatoria a causa della mancanza di un rapporto di lavoro al momento dell'evento maternità. Tale accredito è riconosciuto a condizione che il periodo non sia già coperto da altra tipologia di contribuzione anche considerando eventuali altri fondi pensionistici presso i quali la lavoratrice sia stata iscritta. Ad esempio non può essere riconosciuto ove la lavoratrice abbia percepito per il periodo in questione l'indennità di disoccupazione (es. naspi o mobilità) perchè in tal caso avrebbe luogo una doppia copertura contributiva per il medesimo periodo temporale.
Ebbene l'Inps precisa che l’istanza di accredito figurativo, ai sensi del citato art. 25, presuppone sempre una preventiva consultazione delle banche dati per accertare che il periodo corrispondente all’astensione obbligatoria per maternità non sia già coperto da altra contribuzione.
Le lavoratrici con doppia iscrizione
L'impostazione pocanzi esposta ha risvolti anche con riferimento alle lavoratrici del pubblico impiego che siano risultate iscritte in passato al Fondo Pensione dei Lavoratori Dipendenti. Infatti l’accredito della contribuzione figurativa ai sensi dell'articolo 25 del Dlgs 151/2001 nella gestione pubblica, potrà avvenire solo se sia accertata l'inesistenza di un rapporto di lavoro dipendente nel settore privato per il periodo che deve formare oggetto di accredito figurativo. Se a seguito della verifica sia accertata l’inesistenza di un rapporto di lavoro, l'Inps potrà procedere al riconoscimento dell’evento maternità nella gestione pubblica mediante accredito figurativo ex art. 25 D.lgs. n. 151/2001, per i soli periodi non coincidenti con quelli coperti da altra contribuzione (figurativa o effettiva) presso altri fondi.
Viceversa, nei casi in cui il periodo corrispondente all’astensione obbligatoria per maternità sia coperto anche parzialmente da contribuzione e si accerti che l’evento maternità si colloca all’interno di un rapporto di lavoro, non si potrà procedere al riconoscimento nella gestione pubblica, anche se non vi è copertura figurativa nel fondo privato. In tal caso, infatti, l’accredito va richiesto nel fondo in cui la dipendente era a suo tempo iscritta in costanza di rapporto di lavoro.