Whistleblowing – Il Senato apporta nuove modifiche
Fonte:ilpersonale
II Dossier n. 315 contiene le modifiche che il Senato ha apportato al disegno di legge sul c.d. whistleblowing, “Disposizioni per la tutela degli autori di segnalazioni di reati o irregolarità di cui siano venuti a conoscenza nell’ambito di un rapporto di lavoro pubblico o privato”.
L’articolo interessato dalle modifiche è il 54-bis del D.Lgs. n. 165/2001 (Testo unico del pubblico impiego).
Rispetto al testo trasmesso dalla Camera, il Senato:
· ha escluso i collaboratoria qualsiasi titolo dell’ente dagli obblighi di segnalazione;
· ha previstoche i modelli di organizzazione dell’ente – anziché l’obbligo dei dirigenti e loro sottoposti di presentare direttamente le segnalazioni – debbano prevedere l’attivazione di uno o più canali che consentano la trasmissione delle segnalazioni stesse a tutela dell’integrità dell’ente; tali canali debbono garantire la riservatezza dell’identità del segnalante nelle attività di gestione della segnalazione. Mentre il testo della Camera richiedeva che i modelli di organizzazione debbano prevedere canali alternativi di segnalazione, di cui almeno uno idoneo a garantire la riservatezza dell’identità del segnalante “anche” con modalità informatiche, il testo del Senato prevede che vi debba essere “almeno un canale” alternativo, idoneo a garantire la riservatezza con modalità informatiche (nel testo del Senato la modalità informatica è dunque uno strumento necessario, e non eventuale, del canale alternativo a tutela della riservatezza dell’identità del segnalante);
· ha precisato che le segnalazioni circostanziate delle condotte illecite (o della violazione del modello di organizzazione e gestione dell’ente) – escluso anche qui il requisito della buona fede – debbano fondarsi su elementi di fatto che sianoprecisi e concordanti (è espunto il riferimento alla “ragionevole convinzione” dell’illiceità delle condotte);
· ha soppressola previsione secondo cui i modelli di organizzazione debbono prevedere misure volte a tutelare l’identità del segnalante e a mantenere in ogni contesto la riservatezza dell’informazione dopo la segnalazione, nei limiti in cui l’anonimato e la riservatezza siano opponibili per legge (tali misure sono infatti ricondotte al sistema disciplinare previsto dall’art, 6, comma 2, lett. e), del D.Lgs.231, v. ante); è stabilito, quindi, che i modelli di organizzazione debbano prevedere sanzioni disciplinari nei confronti di chi violi le misure di tutela del segnalante (il testo-Camera prevedeva, in tale ambito, di sanzionare – oltre che la violazione degli obblighi di riservatezza – anche gli atti ritorsivi o discriminatori nei confronti del segnalante, ipotesi che sono evidentemente state ritenute estranee all’ambito disciplinare);
· ha introdotto l’obbligo di sanzionare chi effettua, con dolo o colpa grave, segnalazioni che si rivelino infondate;
· confermando il divieto di atti di ritorsione o discriminatori, diretti o indiretti, nei confronti del segnalante per motivi collegati, direttamente o indirettamente, alla segnalazione, ha soppresso la previsione che fa salvo il diritto degli aventi causa a tutelarsi quando siano accertate responsabilità penali o civili a carico del segnalante relative alla falsità della dichiarazione.
Scorrimento della graduatoria: la posizione dell’idoneo
Fonte:ilpersonale
La Corte di Cassazione nella sentenza n. 26104 afferma che la domanda avanzata dal candidato utilmente collocato nella graduatoria finale riguardante la pretesa al riconoscimento del diritto allo “scorrimento” della graduatoria del concorso espletato, verte sul “diritto all’assunzione”.
L’istituto del c.d. “scorrimento della graduatoria” di concorso, che consente ai candidati semplicemente idonei di divenire vincitori effettivi, presuppone necessariamente una decisione della pubblica amministrazione di coprire un determinato numero di posti vacanti utilizzando la graduatoria rimasta efficace (si deve trattare di posti non solo vacanti, ma anche disponibili, e tali diventano sulla base di apposita determinazione); la decisione, una volta assunta, vincola l’Amministrazione a darvi corso.
Ok alle Linee guida sulla valutazione di impatto in materia di privacy
Fonte:gazzetta entilocali
Sono state adottate dalle Autorità di protezione dati europee riunite nel Gruppo di lavoro ex art. 29 le Linee guida che aiuteranno amministrazioni pubbliche e imprese nella valutazione di impatto sulla protezione dei dati (DPIA, Data Protection Impact Assessment).
La DPIA, introdotta dal Regolamento europeo 2016/679, consiste in una procedura finalizzata a descrivere il trattamento dei dati, valutarne necessità e proporzionalità e facilitare la gestione dei rischi per i diritti e le libertà delle persone fisiche. La DPIA è uno strumento importante: aiuta il titolare non soltanto a rispettare le prescrizioni del Regolamento europeo, ma anche a dimostrare l’adozione di misure idonee a garantirne il rispetto. In altri termini, la DPIA è una procedura che permette al titolare di realizzare e dimostrare la conformità del trattamento alle norme. Non è obbligatorio condurre una DPIA per ogni singolo trattamento. Essa è però necessaria se il trattamento “può presentare un rischio elevato per i diritti e le libertà delle persone fisiche”. È possibile utilizzare un’unica DPIA per valutare più trattamenti che presentino delle analogie (ad es. un gruppo di autorità locali che decidano di installare ciascuna un analogo sistema di videosorveglianza). E una analisi di impatto privacy può essere utile anche per valutare l’effetto di un nuovo dispositivo tecnologico. In ogni caso, a prescindere dalla sua obbligatorietà, la DPIA rappresenta sempre una buona prassi per PA e imprese.
Per assicurare un’interpretazione uniforme dei casi in cui la DPIA è obbligatoria, i Garanti UE hanno fornito anche alcuni criteri in vista dell’elaborazione degli elenchi dei trattamenti più rischiosi che le Autorità di controllo sono tenute ad adottare (ad es., trattamenti valutativi, compresi lo scoring e la profilazione; decisioni automatizzate dalle quali possono derivare discriminazioni per gli interessati; monitoraggio sistematico; trattamenti su larga scala, in particolare di dati sensibili).
L’inosservanza degli obblighi concernenti la DPIA può comportare l’imposizione di sanzioni pecuniarie da parte delle Autorità garanti. Il mancato svolgimento dell’analisi (quando il trattamento è soggetto a tale valutazione), lo svolgimento non corretto o la mancata consultazione dell’Autorità di controllo competente ove ciò sia necessario, possono comportare l’applicazione di una sanzione amministrativa fino a un massimo di 10 milioni di euro e, se si tratta di un’impresa, fino al 2% del fatturato globale annuo.
Madre casalinga: congedo parentale al padre?
Fonte:legge per tutti
Il diritto di assentarsi dal lavoro nel primo anno di vita del figlio spetta, per il padre, solo a condizione che la madre non possa o non voglia usufruire dei congedi.
Se un bambino piccolo sta male, i genitori devono essere pronti a portarlo immediatamente dal pediatra o alla guardia medica. Devono inoltre poter comprare le medicine e, quindi, alternarsi a casa. Per questa finalità sono stati previsti gli appositi permessi per la malattia del bambino (leggi Malattia del figlio e Posso assentarmi dal lavoro se mio figlio sta male?).
Ma non è solo la malattia a tenere impegnati i genitori. Durante il primo anno di vita del neonato, è noto che madre e padre sono più impegnati, a volte non dormono la notte e c’è sempre bisogno di un’assistenza continua nei confronti del piccolo che non può essere lasciato da solo. Per queste esigenze la legge ha previsto i cosiddetti congedi parentali, ossia dei permessi speciali sul lavoro che vanno retribuiti. Il diritto però spetta in modo diverso al padre e alla madre stante il fatto che la madre ha un ruolo centrale nello sviluppo e nel benessere del minore, dovuto a peculiarità della maternità ed al forte legame che si sviluppa tra i due, sin dalla gestazione e nel primo anno di vita.
Uno dei problemi che più di frequente si pone è quando la madre è casalinga: al padre spetta il congedo parentale? Di tanto si è occupata una recente sentenza del Consiglio di Stato [1]. Vediamo cosa hanno detto i giudici amministrativi.
Riposi giornalieri della madre
La legge [2] stabilisce che il datore di lavoro deve consentire alle lavoratrici madri, durante il primo anno di vita del bambino, due periodi di riposo, anche cumulabili durante la giornata. Il riposo è uno solo quando l’orario giornaliero di lavoro è inferiore a sei ore.
Tali periodi di riposo hanno la durata di un’ora ciascuno e sono considerati ore lavorative agli effetti della durata e della retribuzione del lavoro. Essi comportano il diritto della donna ad uscire dall’azienda.
I periodi di riposo sono di mezz’ora ciascuno quando la lavoratrice fruisca dell’asilo nido o di altra struttura idonea, istituiti dal datore di lavoro nell’unità produttiva o nelle immediate vicinanze di essa.
Riposi giornalieri del padre
I periodi di riposo per il primo anno di vita del bambino di cui abbiamo appena parlato sono riconosciuti al padre lavoratore:
· nel caso in cui i figli siano affidati al solo padre;
· in alternativa alla madre lavoratrice dipendente che non se ne avvalga;
· nel caso in cui la madre non sia lavoratrice dipendente;
· in caso di morte o di grave infermità della madre.
Le ipotesi per la concessione di detti aiuti al padre sono tassative e conseguenti a situazioni in cui la madre non ha la possibilità di fruirne in prima persona per ragioni giuridiche (prima ipotesi), per volontà (seconda ipotesi), per impossibilità professionale (terza ipotesi) o materiale (quarta ipotesi).
Spettano i riposi al padre se la madre è casalinga?
Si pone spesso il problema del diritto al congedo parentale per il papà quando la madre è una professionista o una casalinga. Sul punto si scontrano due tesi diverse. Una prima è favorevole al padre; l’attività domestica della casalinga va considerata come un lavoro non retribuito svolto a favore di terzi (la propria famiglia) che la distolgono dalla cura della prole. Pertanto, quando la madre non ha diritto al congedo di maternità (per non essere una lavoratrice dipendente perché casalinga o autonoma), questo può essere fruito dal padre. Negarglielo solo perché la madre non è una dipendente sarebbe discriminatorio [3].
Esistono però sentenze che affermano il contrario: la casalinga non può essere parificata ad una lavoratrice e può sempre ritagliarsi, avendo una gestione autonoma del proprio tempo, due ore per assistere i figli. Il padre che voglia usufruire dei congedi deve dimostrare che la moglie, benché casalinga, non è in grado di accudire i figli. In pratica, la legge non riconosce al padre un diritto automatico ai riposi giornalieri autonomi, indipendente e parallelo a quello della madre, ma questi potranno essere concessi se esistono «concreti impedimenti che si frappongano alla possibilità per la moglie casalinga (e dunque lavoratrice non dipendente, come si ritiene debba essere qualificata) di assicurare le necessarie cure al bambino». Ostacoli che vanno provati e documentati concretamente.
Secondo questo orientamento – cui aderisce la sentenza in commento – poiché la casalinga svolge attività domestiche che le consentono di prendersi cura del figlio, non spetta alcun permesso e congedo parentale al padre salvo che la madre non vi possa attendere per specifiche, oggettive, concrete, attuali e ben documentate ragioni.
Polizia e militari
Il Consiglio di Stato riconosce che la disciplina sui congedi parentali si applica anche agli appartenenti alle Forze armate e di Polizia (civile e militare) con i limiti ed i vincoli rivenienti dalle specificità ordinamentali, operative ed organizzative di tali Corpi (benché in un primo momento si ritenne di non concedere loro queste misure di ausilio alla genitorialità previste dal d.lgs. citato per il «particolare status rivestito e per gli speciali compiti istituzionali svolti da tali organizzazioni»).
note
[1] Consiglio di Stato, sent. n. 4993/17 del 30.10.2017.
[2]Art. 40, lett. c), d.lgs. n. 151/01.
[3] Cons. Stato n. 4293/08.
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Invalidità: come contestare gli accertamenti della commissione medica?
Fonte:legge per tutti
Ho richiesto l’invalidità e la 104 per problemi ortopedici. La commissione ha diagnosticato anche una sindrome ansiosa depressiva ma io non voglio che risulti ciò. Perché è stata inserita? Che devo fare?
Prima di rispondere ai quesiti è bene ricordare cosa intende la legge per invalido civile e per portatore di handicap. Per invalidi civili si intendono i cittadini affetti da minorazioni congenite o acquisite, anche a carattere progressivo, compresi gli irregolari psichici per oligofrenie di carattere organico o dismetabolico, insufficienze mentali derivanti da difetti sensoriali e funzionali che abbiano subito una riduzione permanente della capacità lavorativa non inferiore a un terzo o, se minori di anni 18, che abbiano difficoltà persistenti a svolgere i compiti e le funzioni proprie della loro età [1]. Quanto, invece, alla nozione di portatore di handicap, prevede che è persona handicappata colui che presenta una minorazione fisica, psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva, che é causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa e tale da determinare un processo di svantaggio sociale o di emarginazione [2]. Al fine di garantire il rispetto della dignità umana, della libertà e dell’autonomia delle persone affette da invalidità o da handicap, il legislatore prevede forme d’integrazione della persona non solo all’interno della famiglia ma anche nella società, nelle scuole e nel lavoro. A questo scopo la Repubblica italiana persegue il recupero funzionale e sociale della persona affetta da minorazioni fisiche, psichiche e sensoriali e assicura i servizi e le prestazioni per la prevenzione, la cura e la riabilitazione delle minorazioni, nonché la tutela giuridica ed economica della persona handicappata. Per poter beneficiare delle forme assistenziali previste dall’ordinamento italiano è necessario che l’invalidità civile o lo stato di handicap vengano accertati da un’apposita commissione medica. L’accertamento delle condizioni di minorazione viene effettuato in ciascuna provincia dalla commissione sanitaria nominata dal prefetto. La commissione sanitaria è formata dal medico provinciale (che riveste la funzione di presidente), da un ispettore medico del lavoro o da altro medico scelto dal capo dell’ispettorato provinciale del lavoro (preferibilmente tra i medici previdenziali o fra gli specialisti in medicina legale o del lavoro ovvero tra gli specialisti in igiene generale e speciale) nonché da un medico designato dall’Associazione nazionale dei mutilati ed invalidi civili. In tema di soggetti competenti all’accertamento delle patologie, la legge puntualizza gli accertamenti sanitari vengono effettuati dalle unità sanitarie locali. Nell’ambito di ciascuna unità sanitaria locale operano una o più commissioni mediche incaricate di effettuare gli accertamenti: esse sono composte da un medico specialista in medicina legale che assume le funzioni di presidente e da due medici di cui uno scelto prioritariamente tra gli specialisti in medicina del lavoro. Inoltre, le commissioni mediche sono di volta in volta integrate con un sanitario in rappresentanza, rispettivamente, dell’Associazione nazionale dei mutilati ed invalidi civili, dell’Unione italiana ciechi, dell’Ente nazionale per la protezione e l’assistenza ai sordomuti e dell’Associazione nazionale delle famiglie dei fanciulli ed adulti subnormali, ogni qualvolta devono pronunciarsi su invalidi appartenenti alle rispettive categorie. Infine, è riconosciuto il diritto della persona interessata a farsi assistere da un medico di sua fiducia durante la visita innanzi alla commissione. Sempre in tema di soggetto competente all’accertamento, l’attività di accertamento viene eseguita da apposite commissioni operanti presso le unità sanitarie locali rinviando. In ultimo, a partire dal 1° gennaio 2010, le commissioni indicate devono essere integrate da un medico dell’Inps in qualità di componente effettivo. Riassumendo, in base alla normativa vigente, la commissione medica deve essere composta da cinque medici: uno specialista in medicina legale, altri due medici di cui uno specialista in medicina del lavoro, un medico di rappresentanza della categoria interessata all’accertamento e un medico dell’Inps.
Passando adesso ai quesiti, risulta che il verbale è stato firmato da cinque medici, così come previsto dalla normativa vigente. È bene precisare che, secondo l’orientamento consolidato della giurisprudenza, il verbale della commissione medica ha natura di atto pubblico e fa piena prova fino a querela di falso. Ciò vuol dire che, per contestare la legittimità formale del verbale rilasciato a seguito della visita a cui la lettrice è stata sottoposta poiché durante l’accertamento sarebbe stato presente un solo medico, dovrà avviare una causa mediante la proposizione della cosiddetta querela di falso e dovrà dimostrare la falsità del verbale. A tal fine è ammesso qualsiasi mezzo di prova, anche quelle testimoniali: poiché la lettrice è stata accompagnata da un medico di sua fiducia, quest’ultimo potrà testimoniare sulla circostanza relativa alla regolare composizione della commissione medica. Quanto agli obblighi gravanti sui medici al momento dell’accertamento, sono previsti i seguenti compiti:
1. accertare la minorazione degli invalidi e mutilati di e la causa invalidante nonché di valutare il grado di minorazione;
2. valutare se la minorazione può essere ridotta mediante idoneo trattamento di riabilitazione e dichiarare se la minorazione stessa impedisca la frequenza dei corsi normali di addestramento;
3. valutare la necessità o l’opportunità di accertamenti psico-diagnostici ed esami attitudinali.
La norma richiamata si limita a prevedere quali siano i compiti della commissione medica ma non pone particolari e specifici divieti lasciando, quindi, un margine di discrezionalità ai medici della commissione. In altre parole, benché la procedura di accertamento dell’invalidità o della minorazione presuppone un certificato del medico al fine di poter essere sottoposti alla visita della commissione, quest’ultima non è strettamente tenuta a limitarsi a quanto attestato nel certificato allegato alla domanda. Il comportamento della commissione che si è espressa oltre che sullo stato fisico anche su quello psichico non integra un abuso ma è espressione della discrezionalità di cui i medici godono nella valutazione dello stato di salute del paziente. Qualora la lettrice intenda contestare la valutazione sulle sue condizioni psichiche ci sono due possibili vie: la domanda di revisione ed il ricorso per l’accertamento tecnico preventivo. Quanto alla revisione, è bene precisare che di norma la persona affetta da invalidità o da handicap è sottoposta a visita di revisione qualora l’invalido sia un minore o quando vi sia una diagnosi provvisoria o una menomazione soggetta a miglioramento. È, quindi, la commissione medica che, di solito, dispone la revisione mediante indicazione espressa risultante dal verbale rilasciato dopo la visita. Dalla documentazione inviata dalla lettrice non risulta che la commissione abbia ritenuto necessario sottoporla ad una visita di revisione, tuttavia – stante la genericità della normativa suindicata sul punto – nulla impedisce che sia la lettrice stessa a chiedere di essere sottoposta ad una nuova visita al fine di far accertare la patologia fisica escludendo quella psichica. A tale scopo dovrà presentare apposita domanda scaricabile dal sito dell’Inps corredata da certificazione medica concernente la permanenza della patologia fisica nonché da ulteriore certificato medico attestante il suo pieno e completo equilibrio psichico e l’assenza di stati ansiosi o depressivi. Un’altra via perseguibile consiste nel richiedere un accertamento tecnico preventivo. L’accertamento tecnico preventivo rappresenta una condizione di procedibilità (cioè una fase anteriore al giudizio vero e proprio) per poter impugnare il verbale della commissione medica innanzi al giudice. Nonostante la natura giuridica, anche l’accertamento tecnico preventivo si propone con ricorso e si traduce in una causa innanzi al giudice benché caratterizzata da tempi più ridotti. Mediante questa procedura, che costituisce un passaggio indispensabile per poter avviare il processo, il ricorrente chiede al giudice di nominare un consulente tecnico d’ufficio (in altre parole un medico esperto nella patologia da esaminare) il quale ha il compito di accertare la correttezza o meno della valutazione compiuta dalla commissione sanitaria. Qualora la relazione del ctu sia favorevole alle richieste del ricorrente e la controparte (cioè l’Inps) non faccia opposizione, il giudice emetterà il decreto di omologa che non è passibile di impugnazione; nel caso contrario sarà possibile impugnare il provvedimento conclusivo del procedimento ed avviare una vera e propria causa di primo grado. Abitualmente l’accertamento tecnico preventivo viene proposto per contestare una diagnosi che si ritiene erronea in quanto lo stato di salute è più grave rispetto a quello diagnosticato: nel caso della lettrice, invece, lei agirebbe per vedere riconosciuto il contrario. Poiché la legge prevede l’impugnabilità del verbale senza porre limiti al tipo di domanda da rivolgere al giudice, non ci sono ostacoli alla proposizione del ricorso per l’accertamento tecnico preventivo. In sede di accertamento tecnico preventivo potrà essere anche presentata la querela di falso del verbale al fine di far accertare la regolarità della composizione della commissione medica. La proposizione della querela, tuttavia, allungherà i tempi della procedura trattandosi di due accertamenti distinti: uno relativo al suo stato di salute, l’altro concernente la legittimità formale del documento. L’intera attività ora descritta deve essere svolta con l’ausilio di un avvocato e prevede che i costi relativi alla spese processuali, all’onorario del consulente e a quello dell’avvocato siano sostenuti dal ricorrente. Tuttavia il legislatore, al fine di consentire l’accesso alla giustizia anche ai meno abbienti, ha disposto l’istituto del cosiddetto gratuito patrocinio: in altre parole, le persone che non superano un determinato tetto reddituale annuo potranno adire il giudice gratuitamente. Attualmente il limite di reddito entro cui si può beneficiare del gratuito patrocinio è di 11.528,41 euro. Infine, il ricorso per l’accertamento tecnico preventivo deve essere proposto entro il termine inderogabile di sei mesi dalla data in cui la lettrice ha ricevuto il verbale per posta e risultante sulla busta contenente il plico. In ultimo, la lettrice chiede un parere legale su quale sia la strada migliore da seguire al fine di far escludere la patologia psichica. Ebbene, mediante la presentazione della domanda di revisione, lei può chiedere solo che la commissione accerti un miglioramento del suo stato di salute ma non può contestare la diagnosi fatta precedentemente: per questa ragione la nuova valutazione non avrà efficacia retroattiva. Al contrario, mediante il ricorso per l’accertamento tecnico preventivo, potrà contestare la diagnosi effettuata dalla commissione medica e, qualora l’esito del procedimento dovesse essere a suo favore, il provvedimento giudiziale avrà efficacia retroattiva. Nulla le vieta di percorrere entrambe le vie contemporaneamente al fine di non far decorrere inutilmente il termine semestrale previsto per il ricorso: tuttavia le conseguenze saranno diverse. Qualora l’esito della visita di revisione dovesse essere favorevole, la lettrice potrà abbandonare la strada processuale. Ma, se la commissione dovesse confermare la valutazione precedente, potrebbe ritrovarsi con due provvedimenti contrastanti: il secondo verbale a lei sfavorevole e, in caso di esito positivo dell’accertamento, il decreto del giudice per lei favorevole. Al fine di evitare una situazione di questo genere e visto che la lettrice desidera ottenere una pronuncia che abbia efficacia retroattiva, il consiglio è di seguire la strada dell’accertamento tecnico preventivo. In tal caso dovrà rivolgersi ad un avvocato specializzato in diritto previdenziale.
Articolo tratto da una consulenza dell’avv. Giovanna Pangallo
note
[1] Secondo l’art. 1 l. n. 118 del 30.03.1971.
[2]Art. 3 l. n. 104 dello 05.02.1992.
Da PensioniOggi:
Pensioni, Oggi il vertice per sospendere l'adeguamento a 67 anni
· Fonte:pensionioggi Scritto da Eleonora Accorsi
I dettagli e le condizioni per la sospensione del prossimo adeguamento per quindici categorie professionali saranno discusse oggi nel vertice tra Governo e Parti Sociali.
Riprende oggi, 13 Novembre, il confronto tra Governo e sindacati per correggere l'adeguamento delle pensioni alla speranza di vita. L'apertura del Governo ad alcuni correttivi è arrivata la scorsa settimana con la possibilità di esentare dal prossimo adeguamento 15 categorie professionali di lavoratori dipendenti che svolgono mansioni particolarmente gravose (11 delle quali già all'interno del perimetro di tutela dell'Ape sociale più altre quattro: siderurgici, agricoli, marittimi e pescatori) a condizione che sussista un requisito contributivo minimo di 36 anni e che tali attività siano state espletate per almeno sei anni negli ultimi sette di vita lavorativa (qui i dettagli). Condizioni che potrebbero essere ammorbidite domani sotto la pressione della parte sindacale (se fossero confermati questi requisiti il perimetro di tutela resterebbe coincidente con quello dell'Ape sociale; con benefici praticamente marginali).
La sospensione, comunque, riguarderà esclusivamente il requisito anagrafico per la pensione di vecchiaia (e non il requisito contributivo per la pensione anticipata) che dunque, se l'intesa andrà in porto, resterà pari a 66 anni e 7 mesi anche nel biennio 2019-2020. Domani le parti cercheranno di raggiungere un accordo da inserire poi sotto forma di emendamento alla legge di bilancio in corso di esame in Senato.
L'adeguamento dal 2019
Come noto, i dati comunicati dall'Istat a fine ottobre prevedono un rialzo di cinque mesi dell'età pensionabile nel 2019 che porterà l'età di vecchiaia da 66 anni e 7 mesi a 67 anni e il requisito contributivo per la pensione anticipata dagli attuali 42 anni e 10 mesi a ben 43 anni e 3 mesi (42 anni e 3 mesi le donne e 41 anni e 5 mesi per i cd. lavoratori precoci) e a 64 anni l'età anagrafica per l'anticipata contributiva (prevista per quei lavoratori che hanno iniziato a lavorare dopo il 1995 e che maturano al momento della decorrenza un importo non inferiore a 2,8 volte il valore dell'assegno sociale). L'incremento giunge dopo l'ultimo tassello previsto dalla Riforma Fornero che dal 2018 adeguerà l'età per la pensione di vecchiaia delle donne del settore privato agli uomini e alle lavoratrici del pubblico impiego.
Gli altri punti in discussione
L'esecutivo potrebbe aprire anche alla proroga dell'Ape sociale sino al 2019 inserendo ulteriori correttivi sulle platee degli aventi diritto nonchè sull'armonizzazione della previdenza complementare tra dipendenti del settore privato e pubblico impiego. Confermato, invece, lo sconto contributivo di sei mesi per le donne per ogni figlio sui soli requisiti contributivi per conseguire l'ape sociale e l'accesso all'Ape sociale e ai lavoratori precoci per chi ha cessato un contratto anche a termine, a condizione che abbia lavorato 18 degli ultimi 36 mesi. Misure già presentate dal Goveno nella legge di bilancio.
Difficile, invece, l'accoglimento delle richieste sulla fase due sulla previdenza. La parte sindacale premeva, infatti, per l'introduzione della pensione di garanzia per i giovani, gli interventi sul sistema contributivo, la tutela del lavoro di cura, la previdenza complementare e la rivalutazione dei trattamenti pensionistici con l'adozione di un diverso indice di riferimento che tenga maggiormente in considerazione i consumi dei pensionati. Ma il Governo non ha tenuto conto di tali richieste nella legge di Bilancio nè queste sono state ulteriormente discusse negli incontri degli ultimi giorni. Improbabile dunque che queste misure possano vedere la luce entro la fine dell'anno.
Bonus Bebè, L'ISEE va rinnovata ogni anno
· Fonte:pensionioggi Scritto da Valerio Damiani
L'Inps invita gli utenti a rinnovare la Dichiarazione Sostitutiva Unica per il rilascio dell'Isee entro il 2017 per non decadere dall'incentivo alla natalità.
I genitori che non hanno presentato la DSU per l'anno in corso sono tenuti a farlo entro il 31 dicembre 2017 per consentire all'Inps di riprendere il pagamento delle prestazioni relative al cd.bonus bebèrelative all'anno 2017 e per evitare la decadenza del beneficio. Il bonus, come noto, spetta se il nucleo familiare non supera un Isee pari a 25 mila euro: fino a 7 mila è pari a 160 euro mensili, cioè 1.920 euro annui; oltre 7mila e fino a 25 mila è pari a 80 euro mensili, cioè 960 euro annui. Lo precisa il messaggio 4476/2017 pubblicato dall'Istituto di Previdenza.
L'avviso dell'Inps è rivolto, in particolare, a quanti hanno fatto domanda di bonus nel 2015 e nel 2016 e non hanno presentato la Dsu per il rilascio dell'lsee del 2017. Da controlli, spiega l'Inps, risulta che sono molti gli utenti in queste condizioni per cui è stata loro sospesa l'erogazione dell'assegno per l'anno in corso. Per riprendere il pagamento delle mensilità 2017, pertanto, è necessario che sia presentata la Dsu per il 2017 entro il prossimo 31 dicembre.
La DSU va rinnovata ogni anno
Al riguardo, il documento ricorda che la sussistenza di un Isee in corso di validità nei singoli anni di concessione del bonus è requisito previsto non solo per l'accoglimento delle domande nel primo anno, ma anche per la prosecuzione del bonus negli anni successivi. Per tale ragione il requisito Isee, unitamente agli altri requisiti, viene verificato annualmente sia per la spettanza del diritto sia per la misura del bonus. Peraltro, aggiunge l'Inps, la mancata presentazione della Dsu entro il 31 dicembre 2017 ha come conseguenza non solo la perdita delle mensilità per il 2017, ma anche la decadenza della domanda di assegno presentata nell'anno 2016 (e in alcuni casi nel 2015). In tal evenienza, potrà essere presentata una nuova domanda nel 2018, per il periodo residuo, senza più possibilità però di recupero delle mensilità 2017 (cioè con attivazione del beneficio dalla data di presentazione della domanda).
Con l'occasione l'Inps ribadisce che, in via generale, le Dsu hanno validità fino al 15 gennaio dell'anno successivo a quello di presentazione. Ne deriva che, sebbene la domanda di assegno si presenti di regola una sola volta, solitamente nell'anno di nascita o di adozione del figlio, è necessario che il beneficiario rinnovi la Dsu, ai fini della verifica annuale dell'Isee, per ciascun anno di spettanza del beneficio. Per questa ragione l'Inps invita gli aventi diritto al bonus nel 2018, inclusi quelli che hanno presentato o presenteranno la Dsu entro il 31 dicembre, a presentare tempestivamente la nuova Dsu, sin dal 1° gennaio 2018, in modo da consentire all'Inps la verifica della permanenza dei requisiti e, conseguentemente, garantire l'erogazione puntuale delle mensilità di assegno spettanti per il 2018.
Gli effetti
L'istituto illustra quindi gli effetti della mancata presentazione della DSU con riguardo alla nascita di un figlio avvenuta nel maggio del 2016. I genitori hanno presentato la DSU a giugno 2016 e la domanda di assegno di natalità a luglio 2016 (la DSU presentata a giugno è valida se nel nucleo è presente il figlio per il quale è richiesto l’assegno; diversamente, la DSU va nuovamente presentata). Il genitore, in presenza di tutti i requisiti di legge, percepisce l’assegno fino a dicembre 2016. Il genitore però non ha ancora presentato la DSU per il 2017 e quindi l’Istituto ha sospeso l’erogazione delle mensilità di assegno relative all’anno 2017.
A questo punto se il genitore presenta la DSU entro il 31 dicembre 2017 la domanda sospesa viene riattivata e quindi riprende l’erogazione dell’assegno dal mese successivo alla presentazione della DSU, con pagamento anche delle mensilità 2017 arretrate. La DSU presentata entro dicembre 2017 ha validità fino al 15 gennaio 2018 e consente l’erogazione dell’assegno per le mensilità dell’anno 2017 (resta inteso che per il 2018 la DSU dovrà essere presentata nuovamente per non perdere le mensilità del beneficio nel 2018).
Se il genitore non presenta la DSU entro il 31 dicembre 2017 la domanda di assegno presentata a suo tempo nel 2016 decade e le mensilità dell’anno 2017 non possono più essere corrisposte. In questo caso il genitore potrà presentare una nuova domanda nell’anno 2018; tale nuova domanda consentirà, in presenza dei requisiti di legge, il pagamento dell’assegno nell’anno 2018, a decorrere dal mese di presentazione della domanda stessa,ma non consentirà comunque il recupero delle mensilità dell’anno 2017.