(Teleborsa) - Lungaggini e ritardi: sulla lentezza e l'inefficienza della Pubblica Amministrazione ci si potrebbero scrivere dei lunghi trattati. Più bacchettate che elogi, insomma. E quando è online? Va addirittura peggio. In generale, infatti, oltre la metà dei cittadini giudica l'operato della PA in maniera negativa. Il 18% ritiene che il funzionamento sia addirittura "pessimo" mentre il 24% lo ritiene accettabile. Soltanto una quota residuale pari al 3% del totale si ritiene soddisfatta. Lo dice un'indagine Censis-Agi presentata al Digital Summit a Capri.
COSA NON VA - Sono quattro i fattori principali alla base dell'insoddisfazione per i servizi erogati dalla PA:organizzativo, umano, politico e burocratico. La maggioranza della popolazione (59%) ritiene che la situazione sia complessivamente stabile. Il 27% ritiene che l'esperienza generale sia addirittura peggiorata mentre soltanto il 14% dichiara di aver notato negli ultimi due anni un miglioramento.
NEANCHE ONLINE CONVINCE- L'uso dei servizi online offerti dalle principali istituzioni o aziende pubbliche rimane tutt'oggi limitato fra gli italiani. Spiccano per soddisfazione i servizi online offerti dalle scuole e dalle università con il 70% circa degli utenti che riporta un giudizio positivo. E' pari al 44,6% la quota di chi afferma di non aver fatto ricorso ai servizi online perchè preferisce il rapporto diretto con l'operatore allo sportello.
Fonte:sole24ore di Arturo Bianco
Il termine per l'avvio del procedimento disciplinare per le violazioni gravi del codice di settore decorre dalla data in cui l'Ufficio per i procedimenti disciplinari è venuto a conoscenza dell’infrazione commessa dal dipendente. Non è condizione obbligatoria per la legittimità del procedimento che il dirigente e/o responsabile del settore in cui il dipendente svolge la sua attività segnali l’infrazione all'Ufficio per i procedimenti disciplinari. Questo può anche provvedere direttamente all'avvio del procedimento. La segnalazione da parte del dirigente/responsabile all'Ufficio per i procedimenti disciplinari non costituisce il momento di avvio del procedimento stesso. Si possono così riassumere le importanti indicazioni contenute nella sentenza della Sezione Lavoro della Corte di cassazione n. 23268/2017.
Il caso e le norme
La sentenza, che conferma le pronunce di primo e secondo grado e che è riferita a un dipendente del Comune di Roma capitale, si caratterizza per la nettezza con cui vengono fissati i tre principi prima ricordati. Essi traggono dalla stessa un rilievo ancora maggiore e risultano così essere evidenziati in modo ancora più nitido.
Le disposizioni di riferimento sono contenute negli articoli 55 e seguenti del Dlgs 165/2001 e nel contratto collettivo, da ultimo per il personale del comparto Regioni ed enti locali quello dell’11 aprile 2008, disposizioni queste ultime che dalla entrata in vigore del Dlgs 150/2009 (confermate dal Dlgs 75/2017) non possono occuparsi degli aspetti procedurali. Ovviamente la sentenza ricorda che si deve applicare la disciplina in vigore nel momento in cui il fatto è accaduto ed è stato avviato il procedimento disciplinare.
I termini
Sulla base, in particolare, delle disposizioni dettate dal contratto collettivo, il momento iniziale per il calcolo del decorso dei termini decorre dal momento in cui il dirigente/responsabile del settore in cui il dipendente svolge la sua attività è venuto a conoscenza del comportamento dello stesso per le violazioni meno gravi ovvero dal momento in cui l'Ufficio per i procedimenti disciplinari ne è venuto a conoscenza, per le infrazioni che hanno una maggiore gravità e richiedono la erogazione di sanzioni disciplinari più dure.
La segnalazione
Il secondo principio dettato dalla sentenza, che riprende precedenti indicazioni della giurisprudenza della stessa Corte di Cassazione, è che la «segnalazione» del dirigente/responsabile all'Ufficio per i procedimenti disciplinari non costituisce l'avvio del procedimento stesso. In capo a tale Ufficio infatti sono attribuiti compiti che possono essere definiti di preistruttoria, cioè la verifica del contenuto delle segnalazioni sia in termini di veridicità sia per la rilevanza disciplinare. Con la contestazione al dipendente si avvia il procedimento disciplinare e si svolgono le necessarie attività istruttorie.
Procedimento d’ufficio
Il terzo principio fissato dalla sentenza è che non assume un carattere vincolante per l'avvio del procedimento la segnalazione da parte del dirigente/responsabile all'Ufficio per i procedimenti disciplinari. Questo ufficio può avviare il procedimento anche sulla base della segnalazione di altri soggetti, nonché su proprio impulso diretto. La previsione per cui il dirigente/responsabile del settore in cui il dipendente svolge la sua attività debba procedere alla segnalazione del presunto illecito non costituisce una condizione di validità del procedimento: attraverso questa previsione si è voluto sottolineare il “compito istituzionale” di tale soggetto. Si deve evidenziare peraltro che, con le disposizioni introdotte dal Dlgs 150/2009 e dal Dlgs 75/2017, la mancata segnalazione da parte del dirigente/responsabile dei termini per l'avvio del procedimento disciplinare integra gli estremi della violazione disciplinare e determina la necessità di avviare un procedimento sanzionatorio nei suoi confronti.
Fonte: il personale
Il Consiglio di Stato, in una recentissima sentenza del 4 ottobre 2017, n. 4628, afferma che rientrano nella competenza dell’Inps e non della Regione le verifiche ed i controlli sugli invalidi al fine di accertare i requisiti sanitari per le pensioni di invalidità civile.
Nel caso di specie il Consiglio ha respinto il ricorso della Regione Calabria, ribadendo la validità del processo di progressivo affidamento all’INPS di tutte le funzioni in materia di accertamento dei requisiti sanitari sulle pensioni di invalidità civile, così come previsto dalla l. n. 102 del 3 agosto 2009.
La sentenza sottolinea che le funzioni in questione non rientrano tra quelle costituzionalmente attribuite alle Regioni dall’art. 117 Cost.. Per questo, la Regione Calabria non aveva alcun interesse giuridicamente meritevole di tutela per impugnare l’approvazione della Convenzione con l’INPS da parte del Commissario Straordinario per gli interventi di rientro dal deficit della spesa sanitaria regionale.
Pubblicato in Gazzetta Ufficiale il decreto attuativo sulla pensione anticipata dei lavoratori addetti a mansioni usuranti
Fonte: studio cataldi di Gabriella Lax –
Nuove regole in vigore per i le pensioni dei lavori usuranti. Con il decreto del ministero del Lavoro del 20 settembre 2017, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale lo scorso 3 ottobre (sotto allegato), cambiano i requisiti per l'accesso anticipato al pensionamento per i lavoratori addetti a lavorazioni particolarmente faticose e pesanti, ossia i lavori usuranti regolamentati dal d.lgs. 67/2011.
In generale, saranno più favorevoli i requisiti per l'accesso alla pensione anticipata nel caso di lavori usuranti. Vengono infatti eliminate le finestre mobili e inserite ulteriori mansioni faticose tra quelle agevolate. I lavoratori che svolgono mansioni usuranti potranno ritirarsi con la quota 97,6 in presenza di almeno 35 anni di contributi, senza attendere 12 o 18 mesi come previsto fino a quest'anno; inoltre fino al 2025 non ci saranno nuovi adeguamenti alle speranze di vita per le altre categorie previste dal 2019; da quest'anno, infine, i lavori usuranti devono essere stati svolti per almeno sette degli ultimi dieci anni di lavoro; per un numero di anni pari almeno alla metà della vita lavorativa complessiva.
La pensione anticipata usuranti spetta a chi ha svolto i lavori faticosi per almeno sette anni negli ultimi dieci della sua attività lavorativa o, in totale, metà della vita lavorativa complessiva. La manovra della legge di bilancio 2017 ha anche eliminato la finestra mobile e l'adeguamento alle aspettative di vita fino al 2025.
Per le pensioni da lavori usuranti cambiano i documenti che i lavoratori addetti a mansioni usuranti devono presentare per ottenere il relativo beneficio previdenziale ed anche le scadenze per comunicare l'esito riguardante la domanda presentata all'ente previdenziale dal lavoratore interessato. Viene sostituita la tabella A (allegata al decreto del 20 settembre 2011) contenente "Documentazione minima da presentare ai fini della procedibilità della domanda di accesso al beneficio".
Chi ha iniziato a svolgere usuranti in data successiva all'11 gennaio 2008 non dovrà presentare nessuna documentazione. Toccherà all'Inps e all'ispettorato del lavoro fare le dovute verifiche in relazione alle comunicazioni dei datori di lavoro. I soggetti che hanno iniziato a lavorare prima dell'11 gennaio 2008 devono presentare almeno uno dei seguenti documenti: libro matricola, libro unico del lavoro, libretto di lavoro, ruolo di equipaggio, comunicazione al centro per l'impiego su cessazione o variazione del rapporto di lavoro. Indipendentemente dalla data di inizio del lavoro usurante servirà allegare il contratto di lavoro individuale, contenente l'indicazione di inquadramento e mansioni lavorative. Chi presta lavoro notturno in base all'articolo 1, comma 2, lettera g, Dlgs. 66/2003, invece dovrà presentare il contratto di lavoro individuale con l'indicazione del contratto collettivo nazionale, territoriale, o aziendale e il livello di inquadramento, e un prospetto di paga con indicazione delle maggiorazioni dovute al lavoro notturno.
Resta tutto invariato per i dipendenti pubblici che dovranno presentare la certificazione del datore di lavoro che attesta lo svolgimento delle mansioni usuranti, il servizio svolto e le retribuzioni percepite.
Infine i conducenti di veicoli adibiti al servizio pubblico di trasporto collettivo con oltre 9 posti dovranno presentare almeno uno dei seguenti documenti: libro matricola, libro unico del lavoro, libretto di lavoro.
La Cassazione dichiara inammissibile sotto tale aspetto il ricorso di un istituto sanitario, così confermando il carattere mobbizzante della condotta tenuta nei confronti di un medico
Fonte: studio cataldi di Valeria Zeppilli
Ancheirrogare a un dipendente delle sanzioni disciplinari illegittime è un comportamento che può integrare una fattispecie di mobbing.
Lo si evince dall'ordinanza numero 23041/2017 del 3 ottobre (qui sotto allegata), con la quale la Corte di cassazione ha confermato la decisione della Corte d'appello di L'Aquila di ratificare quanto deciso dal Tribunale di Teramo in una causa vertente tra un medico veterinario e l'istituto presso il quale lavorava, ovverosia la dichiarazione di illegittimità di cinque provvedimenti disciplinari irrogati al medico, oltre al rigetto della domanda di inquadramento nella qualifica di dirigente medico veterinario e alla condanna dell'istituto a risarcire il sanitario del danno differenziale derivante dalla condotta vessatoria posta in essere nei suoi confronti.
L'istituto, con particolare riferimento al mobbing, si doleva del fatto che la Corte territoriale avrebbe ritenuto ricorrente un'ipotesi di mobbing considerando illegittime le sanzioni disciplinari irrogate al medico, mentre le stesse non sarebbero tali perché il giudice della fase cautelare le aveva ritenute legittime.
Inoltre, si sarebbe fatto riferimento ad altri comportamenti persecutori tenuti dal datore di lavoro senza indicare di quali comportamenti si trattasse effettivamente e omettendo ogni indagine sull'elemento soggettivo rappresentato dall'intento persecutorio e vessatorio del datore di lavoro.
La Corte di cassazione, tuttavia, ha reputato tale doglianza inammissibile, posto che con essa l'istituto ricorrente nei fatti sollecitava una rivisitazione generale del materiale di causa e ne chiedeva un nuovo apprezzamento nel merito, cose che non possono essere compiute dinanzi alla Corte di legittimità.
Ciò posto, resta la decisione dei giudici di merito: accanirsi con il dipendente con sanzioni disciplinari illegittime è una condotta mobbizzante.
Vai alla guida: "Il Mobbing - guida con raccolta di articoli e sentenze"
*Il congedo straordinario per assistenza di familiari disabili può essere fruito per due anni dal padre e per due anni dalla madre?
Il lavoratore part time ha diritto ai permessi retribuiti Legge 104 per intero?
I permessi retribuiti riconosciuti ai lavoratori dalla Legge 104 spettano per intero anche ai lavoratori in part time verticale, cioè che lavorano solo alcuni giorni della settimana, purché le giornate settimanali lavorate siano più della metà delle giornate lavorative della settimana (ad esempio 4 su 6). Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, con una nuova sentenza [Cass. sent. n. 22925/2017.], che fa il punto completo della situazione sulla fruizione dei permessi retribuiti Legge 104 per chi non lavora a tempo pieno.
In particolare, la Cassazione distingue tra chi ha un contratto di part time orizzontale (cioè chi lavora tutti i giorni, ma per meno ore rispetto all’orario giornaliero ordinario) e chi invece ha un contratto part time verticale (cioè lavora per un numero di giornate minori rispetto alle giornate lavorative, o solo in alcuni periodi dell’anno).
Ma procediamo per ordine e vediamo in che misura spettano i permessi Legge 104 per i lavoratori part time, caso per caso.
Nella generalità dei casi, ai lavoratori a tempo pieno spettano 3 giorni al mese di permessi retribuiti Legge 104: questi permessi sono finalizzati all’assistenza di un familiare con handicap riconosciuto in situazione di gravità.
I permessi possono essere frazionati anche a ore.
Chi ha un contratto part time orizzontale, cioè chi lavora tutti i giorni, ma per un numero di ore inferiori all’orario giornaliero ordinario, ha ugualmente diritto a 3 giorni di permesso al mese.
In relazione a ogni giornata, ovviamente, le ore di permesso spettante sono di meno, così come sono di meno le ore lavorate: questa non è una discriminazione, considerando che il diritto non viene tolto, ma viene riproporzionato in base alla quantità del lavoro prestato.
Per quanto riguarda i lavoratori con part time verticale, cioè che prestano la propria attività soltanto per alcune giornate la settimana, o per alcuni periodi dell’anno, il calcolo dei permessi Legge 104 spettanti è differente.
Nella generalità dei casi, il numero dei giorni di permesso retribuito va ridimensionato in proporzione alle giornate di lavoro prestate, arrotondando.
Se, però, il dipendente presta servizio per oltre la metà delle giornate lavorative settimanali, ad esempio se lavora almeno 4 giorni su 6, i 3 giorni di permesso Legge 104 spettano per intero e non devono essere riproporzionati.
Questo per riconoscere, come chiarito dalla Cassazione, l’importanza degli interessi coinvolti e l’esigenza di effettività di tutela del disabile.
*Lo stress lavoro correlato è una patologia che conferisce al lavoratore il diritto di chiedere il risarcimento dei danni.
Da PensioniOggi:
La comunicazione di informazioni erronee sul periodo che manca alla maturazione del diritto alla pensione, anche al di fuori di un documento con valore certificativo, espone l'ente previdenziale al risarcimento del danno che eventualmente ne deriva all'assicurato. E' quanto ha stabilito la Corte di Cassazione con la sentenza n. 23050/2017 nella quale i giudici di Piazza Cavour hanno dato ragione a un lavoratore che aveva sottoscritto un accordo di rinuncia a impugnare il licenziamento, dopo il quale era stato messo in mobilità, nella convinzione che il periodo di ammortizzatori sociali fosse sufficiente a fargli maturare la pensione. Questo, sulla base di comunicazione scritta da parte dell’INPS sulla situazione contributiva utile al pensionamento.
L'interessato era stato collocato in mobilità sul presupposto che fosse sufficiente un periodo di 18 mesi, pari alla durata dell'indennità di mobilità, per la maturazione del requisito di 35 anni di contribuzione per la pensione di anzianità. Il lavoratore aveva quindi sottoscritto un atto transattivo con rinuncia ad impugnare il licenziamento salvo poi scoprire, al termine della mobilità, che la domanda di pensione non poteva essere accolta. A seguito, infatti, del calcolo erroneo della posizione contributiva da parte dell'INPS, il periodo di mobilità non era sufficiente per conseguire il diritto a pensione e, pertanto, l'assicurato si è trovato costretto al versamento della contribuzione volontaria per la copertura assicurativa necessaria, con un esborso di € 8.954,38.
Il cuore del processo verteva sulla natura di un documento contributivo reso dall'Inps al cittadino, che non rivestiva natura certificativa in quanto non emesso a seguito di una richiesta formale da parte dell'assicurato prevista dall'art. 54 della legge 88/1989 e non poteva quindi considerarsi certificazione tale da ingenerare affidamento e, dunque, un danno. Per queste ragioni il ricorrente era risultato soccombente nei primi due gradi di giudizio ed aveva proposto ricorso per Cassazione. Nel caso di specie, peraltro, l'estratto conto conteneva una serie di errori non rilevati dall'assicurato dando luogo, secondo la parte resistente in giudizio, ad un concorso colposo con conseguente pieno esonero di responsabilità per l'ente previdenziale. Tesi tuttavia smontata dalla Corte di Cassazione che ha accolto le richieste del lavoratore.
I giudici di Piazza Cavour hanno ribadito che l'art. 54 cit., secondo cui l'ente deve comunicare, a richiesta, "i dati relativi alla situazione previdenziale e pensionistica (del richiedente)" e "la comunicazione da parte degli enti ha valore certificativo della situazione in essa descritta", non richiede per questa comunicazione speciali forme, bastando la comprensibilità del cittadino munito del livello di istruzione obbligatoria, né alcuna norma prevede parti di essa meramente incidentali e accessorie, delle quali il destinatario debba tener conto a suo rischio. "Al contrario, il principio di buon andamento, di cui all'art. 97 Cost., comma 1, impone la veridicità degli atti e provvedimenti delle pubbliche amministrazioni, i quali giammai possono essere considerati come asserzioni su cui la prudenza richieda di non fare assegnamento" si legge nella sentenza.
"Con sentenza n. 21454/13 questa Corte ha infatti affermato che nell'ipotesi in cui l'Inps abbia fornito all'assicurato, mediante il rilascio di estratti-conto assicurativi, contenenti risultanze di archivio e pur se privi di sottoscrizione, una erronea indicazione (in eccesso) del numero dei contributi versati, solo apparentemente sufficienti a fruire di pensione, il danno sofferto dall'interessato per la successiva interruzione del rapporto di lavoro per dimissioni e del versamento dei contributi, è riconducibile non già a responsabilità extracontrattuale, ma contrattuale, in quanto fondata sull'inadempimento dell'obbligo legale gravante su enti pubblici dotati di poteri di indagine e certificazione, anche per il tramite delle clausole generali di correttezza e buona fede (applicabili alla stregua dei principi di imparzialità e di buon andamento di cui all'art. 97 Cost.), di non frustrare la fiducia di soggetti titolari di interessi al conseguimento di beni essenziali della vita (quali quelli garantiti dall'art. 38 Cost.), fornendo informazioni errate o anche dichiaratamente approssimative, pur se contenute in documenti privi di valore certificativo".
Di conseguenza i giudici hanno cassato la sentenza nella parte in cui afferma la necessità di particolari forme di richiesta e rilascio della certificazione da parte dell'INPS al fine di generare una responsabilità da parte dell'ente previdenziale; ed hanno rinviato la questione nuovamente alla Corte d'Appello per l'ulteriore esame della controversia.
L'accertamento dei requisiti per le pensioni di invalidità civile può essere attribuita dalle Asl all’Inps. Lo ha stabilito la terza sezione del Consiglio di Stato con la quale i giudici di Palazzo Spada hanno definitivamente respinto il ricorso della Regione Calabria, ribadendo la validità del processo di progressivo affidamento all'Inps di tutte le funzioni in materia di accertamento dei requisiti sanitari sulle pensioni di invalidità civile, così come previsto dalla Legge n. 102 del 3 agosto 2009.
La sentenza (n.4628/2017), pubblicata ieri sottolinea che “le funzioni in questione non rientrano tra quelle costituzionalmente attribuite alle Regioni dall'art. 117 della Costituzione. Per questo, la Regione Calabria non aveva alcun interesse giuridicamente meritevole di tutela per impugnare l'approvazione della Convenzione con l'Inps da parte del Commissario Straordinario per gli interventi di rientro dal deficit della spesa sanitaria regionale.
“Le attività in questione (le verifiche e i controlli) – afferma il Consiglio di Stato -, infatti, sono state fino ad oggi svolte dalle Asl, con medici che, espletando tali funzioni in orario di servizio, potranno tornare alla cura dei pazienti calabresi. Il trasferimento di tutte queste funzioni comporterà consistenti risparmi economici non solo per il Servizio Sanitario Regionale ma anche per la stessa spesa previdenziale dell'Inps, Istituto responsabile dell'intero procedimento di riconoscimento delle pensioni d'invalidità a chi ne ha effettivamente diritto”.
Secondo i giudici amministrativi la certezza dei risparmi è comprovata proprio dal fatto che la gran parte delle attività, attualmente svolte dalle Asl, saranno via via assunte a carico dell’Inps con un diretto risparmio per gli oneri del servizio sanitario regionale e con un miglioramento delle prestazioni del personale medico che, come visto, potrà tornare ad assicurare i propri compiti sanitari in favore dei pazienti della Regione.
Cambiano i tassi da applicare nel periodo tra il 1° ottobre e il 31 dicembre 2017 per quanto riguarda la cessione del quinto della pensione.
Cambiano i tassi da applicare nel periodo tra il 1° ottobre e il 31 dicembre 2017 per quanto riguarda la cessione del quinto della pensione. Con il messaggio n. 3821 dello scorso 4 ottobre, l'Inps ha aggiornato il valore dei tassi relativi al prestito che il pensionato può ottenere da un istituto di credito e rimborsare attraverso un addebito automatico da effettuare sul suo trattamento pensionistico.
L'aggiornamento segue il decreto DT/71048 con il quale il ministero dell’Economia ha indicato i tassi effettivi globali medi (TEGM) praticati dalle banche e dagli intermediari finanziari. Per i prestiti da estinguersi dietro cessione del quinto dello stipendio e della pensione il valore dei tassi da applicarsi nel periodo 1° ottobre – 31 dicembre 2017 sono i seguenti: per gli importi fino a 15mila euro, tassi medi pari a 11,81 e tassi soglia usura a18,7625. Oltre i 15.000, invece tassi medi a 9,04 e tassi soglia usura a 15,3000.
I tassi soglia TAEG da utilizzare per i prestiti estinguibili con cessione del quinto della pensione concessi da intermediari finanziari in regime di convenzionamento ai pensionati variano come riportato in tabella.
Le prestazioni cedibili. Non tutte le prestazioni possono essere oggetto di cessione. Possono essere cedute infatti solo le prestazioni di natura previdenziale corrisposte dallo Stato o dai singoli enti, gli assegni equivalenti a carico di speciali casse di previdenza, le pensioni e gli assegni di invalidità e vecchiaia corrisposti dall'INPS, gli assegni vitalizi e i capitali a carico di istituti e fondi in dipendenza del rapporto di lavoro.
Sono quindi escluse le pensioni e assegni sociali; i trattamenti di invalidità civile; l'assegno mensile per l'assistenza personale e continuativa ai pensionati per inabilità; gli assegni di sostegno al reddito; le pensioni a carico degli enti creditizi. Parimenti non possono essere oggetto di cessione i trattamenti pensionistici integrati al minimo, ovvero di importo inferiore a tale limite (circa 500 euro al mese). Per quanto riguarda la pensione ai superstiti, la cedibilità non è ammessa soltanto se siano in pagamento delle quote di contitolarità. Pertanto, nel caso di pensione ai superstiti corrisposta ad un solo titolare, il calcolo della quota cedibile deve essere effettuata anche su tale prestazione sia nel caso in cui sia la sola pensione di riferimento sia nel caso in cui sia abbinata ad uno o più trattamenti cedibili.