E per la Cassazione il datore di lavoro risponde dei danni alla vittima in solido con lo stalker
Fonte:studio cataldi di Valeria Zeppilli
La persecuzione di un dipendente da parte di un superiore gerarchico può andare ben oltre il mobbing e, in alcuni casi, è idonea a trasformarsi in vero e propriostalking.
Con la sentenza numero 35588/2017 (qui sotto allegata), la Corte di cassazione ha infatti sancito la definitiva condanna del responsabile di un servizio comunale per la persecuzione professionale posta in essere in danno di una lavoratrice sua subordinata, chiamando peraltro il datore di lavoro a risarcire in solido con lo stalker i danni da questo cagionati alla vittima.
In particolare, l'uomo aveva posto in essere delle pesanti violenze morali contro la lavoratrice, sostanziatesi in atteggiamenti oppressivi e a sfondo sessuale.
Inizialmente il capo di imputazione era quello di violenza privata ma, nel corso del dibattimento, lo stesso era stato modificato quello di atti persecutori. Infatti, lo stalking si ha ogni qualvolta determinate condotte, pur non violente, producono in chi le subisce un apprezzabile turbamento, cosa che nel caso di specie si era verificata: la donna aveva infatti accumulato un grande disagio e una profonda prostrazione psicologica.
Le condotte, peraltro, si sono protratte per diversi anni e l'abitualità del reato ha escluso la decorrenza del termine prescrizionale per il suo perseguimento. Non solo: il reo aveva tentato di far valere dinanzi ai giudici l'illegittima applicazione retroattiva della disciplina in materia di stalking, posto che le condotte erano iniziate prima della sua entrata in vigore, ma il reato è continuato anche dopo, con conseguente piena operatività, per la Corte, della normativa in materia di atti persecutori.
Fonte: https://www.tomshw.it
La Pubblica amministrazione deve ancora fare i conti con l'innovazione digitale, che va avanti ma lentamente e in ordine sparso, dice l'Osservatorio eGovernment della School of Management del Politecnico di Milano. Solo nel 44% dei Comuni c'è già almeno un progetto di innovazione in corso. Bene invece la scuola: il 97% usa la firma digitale.
La Pubblica Amministrazione italiana è ancora per molti versi analogica, anche se alcuni progressi sono stati fatti o messi in cantiere, dice l'Osservatorio eGovernment della School of Management del Politecnico di Milano. C'è una forte frammentazione delle iniziative di innovazione, manca un coordinamento strutturato di progetti e investimenti e c'è scarsa capacità di fare rete tra gli enti locali, che mostrano difficoltà a stabilire partenariati per accedere ai finanziamenti europei e in pochi casi fanno riuso dei software tra le varie amministrazioni.
L'Osservatorio ha esaminato il processo di semplificazione e digitalizzazione della pubblica amministrazione italiana consultando i responsabili delle funzioni degli 8.057 Comuni, delle 21 Regioni e Province autonome, dei 32 soggetti aggregatori e delle 8.675 scuole statali del paese. I temi: governancedell'innovazione, digitalizzazione dei front office e dei back office della pubblica amministrazione locale, pagamenti verso la PA, processo d'acquisto negli enti locali, scuole e Sportello unico per le attività produttive (Suap).
Dalla ricerca emerge che gli investimenti in innovazione digitale resteranno immutati nel 2017 per oltre il 60% degli enti locali e aumenteranno nel 30% dei casi. Solo nel 44% dei Comuni c'è già almeno un progetto di innovazione in corso e nel 22% una delega tecnica dedicata all'eGovernment. Appena il 17% ha partecipato a progetti finanziati con fondi diretti europei; chi non l'ha fatto trova difficoltà nello sviluppare un'idea progettuale (44%), gestire il progetto (32%), coordinare i soggetti costituenti il partenariato (29%).
Resta eterogenea la digitalizzazione dei servizi degli enti: solo il 4% dei Comuni è un vero Digital Champion, mentre il 35% è totalmente Non Digital, ma nei fatti il 30% della popolazione italiana non può interagire online con la pubblica amministrazione locale perché non ci sono servizi interattivi. Riguardo agli strumenti, però, la situazione è buona: il 79% degli enti dispone di un sistema di gestione documentale e il 71% di un sistema di conservazione digitale. Non si afferma comunque la pratica del riuso di software tra amministrazioni: il 64% degli enti che hanno sviluppato soluzioni informatiche non considera ancora questa possibilità.
È positivo invece il trend dei pagamenti digitali verso la pubblica amministrazione, grazie alla diffusione di pagoPA: nei primi mesi del 2017, su 21 Regioni e Province autonome, 18 si sono già proposte come intermediari tecnologici; tra gli enti locali solo il 9% non conosce ancora PagoPA (un anno fa erano il 67%) e il 59% ha aderito al Nodo dei Pagamenti-Spc.
Nel 25% dei Comuni è già possibile accedere al Fascicolo del cittadino per consultare la situazione debitoria. Non è omogenea invece la digitalizzazione degli Sportelli unici delle attività produttive: un canale web è ormai diffuso nell'81% dei casi, ma nel 10% restano sistemi di ricezione delle pratiche allo sportello, solo nel 45% c'è un sistema di gestione documentale ed è ancora scarsa la diffusione del pagamento elettronico (21%).
È avanzata la digitalizzazione delle scuole, tutte dotate di connessione Internet: il 97% usa la firma digitale, il 70% degli istituti archivia digitalmente i documenti e utilizza un sistema di workflow automatizzato, il 90% ha attivo il protocollo digitale. Nei processi gestionali e organizzativi, solo il 4% delle scuole è poco o per nulla digitalizzata, il 39% è già Fully Digital.
"Gli enti locali stanno maturando una nuova concezione dell'innovazione come processo strutturato e non solo come una serie di progetti isolati, ma per un pieno sviluppo dell'eGovernment in Italia mancano ancora le competenze interne e la capacità di fare rete", afferma Giuliano Noci, responsabile scientifico dell'Osservatorio eGovernment.
"Gli ultimi mesi - ricorda - hanno visto la realizzazione e l'attivazione di grandi progetti strategici come Spid (Sistema pubblico per l'identità digitale) Anpr (Anagrafe nazionale della popolazione residente) e pagoPA, la pubblicazione del nuovo Codice dell'amministrazione digitale (Cad), del Codice degli Appalti, del Piano triennale dell'Informatica della PA: queste importanti iniziative rischiano però di faticare a raggiungere i propri obiettivi se gli enti locali saranno lasciati autonomi nella gestione del cambiamento. Per mettere a fattor comune risorse e competenze serve un sistema di governance dell'innovazione che favorisca la collaborazione tra enti".
A questo scopo è cruciale il ruolo del Team per la trasformazione digitale, la struttura commissariale istituita per supportare la Pa nel processo di digitalizzazione, che nel report dell'Osservatorio eGovernment ha raccontato il lavoro svolto nei primi mesi in particolare sull'Anagrafe nazionale della popolazione residente e su PagoPA, con indicazioni utili agli enti locali impegnati nel percorso di trasformazione digitale.
"Il 54% degli enti locali considera prioritario avere occasioni formative per migliorare le conoscenze sul digitale e la ricerca rivela come in ogni ambito sia cruciale l'acquisizione di nuove competenze, non solo tecniche, per consentire ai dirigenti pubblici di governare il processo di innovazione", dice Michele Benedetti, direttore dell'Osservatorio eGovernment.
"II nuovo Codice per l'amministrazione digitale - conclude Benedetti - introduce la figura del responsabile per la transizione digitale in ciascun ente ma non sarà sufficiente se le nuove figure non saranno coadiuvate da uno staff interno adeguato e da una community esterna di condivisione di competenze ed esperienze".
Fonte:la stampa
Matteo De Santi, designer del Team Digitale, racconta a La Stampa i progetti per migliorare l’esperienza degli utenti sulle piattaforme della PA
Il design digitale ha l’importante compito di (ri)portare l’uomo al centro della tecnologia, progettando spazi online creati a sua misura: più fruibilità, semplicità e intuitività. In una parola: utili. È questo l’obiettivo nella più moderna accezione di human centered design, il design centrato sull’uomo dove la tecnologia è un facilitatore, tenendo come guida i principi del design thinking e degli studi sulla Human Computer Interaction: essere punto d’incontro tra tecnologie e persone.
Il Team Digitale del Governo, cui avevamo dedicato un approfondimento in occasione del lancio di Developers Italia (la community per sviluppatori), ha aperto una nuova piattaforma dedicata al design applicato alle interfacce utente (ossia tutto quello che fa da ponte fra i servizi digitali ed i loro destinatari) della Pubblica Amministrazione. La Stampa ha intervistato Matteo De Santi, UX/UI Designer del Team Digitale, che ne ha presentato le sfide, le opportunità, e i benefici.
Disegnare servizi pubblici a misura di cittadino significa capire i loro bisogni includendo il loro punto di vista nella progettazione e nelle scelte tecnologiche, semplificando i processi e rendendo più accessibili gli strumenti digitali. La community dei designer, creata in collaborazione con l’Agenzia per l’Italia Digitale (AgID), è l’occasione per tanti professionisti di mettersi in gioco e sfruttare le proprie capacità per avere un reale impatto positivo sulla vita di milioni di italiani.
«LA CULTURA DEL DESIGN FA RISPARMIARE I CITTADINI E LA PA»
«Stiamo portando il focus sul service design e sul content design: un cambio di linguaggio visivo per facilitare gli strumenti di interazione e relazione tra cittadini e Pubblica Amministrazione - spiega Matteo De Santi -. Progettare un’esperienza moderna e coerente per l’utente sui portali della PA significa allineare i servizi del pubblico con quelli del privato. Il cittadino che utilizza lo smartphone per accedere a strumenti come PayPal, Stripe, o Satispay, non deve trovare differenze di tecnologie e condizioni d’uso con i servizi dello Stato. I portali della Pubblica Amministrazione non devono più apparire diversi da ciò che comunemente usiamo nel quotidiano».
Il progetto Design Italia è dunque il punto di riferimento per il design della PA. Sul sito web è possibile trovare guide, strumenti e un forum per favorire la collaborazione tra i professionisti e promuovere il ruolo del design incentrato sulla figura dell’utente-cittadino nello sviluppo dei servizi pubblici. Secondo De Santi, un design moderno significa risparmio di tempo e denaro per i fruitori e per lo Stato: «Creando servizi accessibili online elimini, ad esempio, il problema delle code agli sportelli. Il nostro lavoro non è una conversione digitale dei processi analogici, ma un ripensare i servizi dalla base, inserendoci nelle abitudini degli utenti».
COMMUNITY E PARTECIPAZIONE
«Stiamo chiedendo la partecipazione dei designer, su diverse linee di sviluppo: service design, user research, user interface e content design - spiega De Santi a La Stampa -. Il contributo dei professionisti è prezioso, sia di quelli che lavorano nel settore privato, sia dei ricercatori del mondo universitario: mi piacerebbe che diventassero i promotori dei nuovi modelli per la PA, proponendo soluzioni innovative. Continuiamo a monitorare i progetti che si sono sviluppati in piccole realtà territoriali, per verificarne la scalabilità e la possibilità di applicarli nel contesto nazionale. Abbiamo aperto un account su Behance , dove i designer possono raggiungerci e caricare le loro proposte di interfaccia utente per i servizi della Pubblica Amministrazione».
I PROSSIMI PASSI
«Con Design Italia vogliamo far emergere e permettere un confronto trasversale con le iniziative vincenti a livello locale, da poterle possibilmente applicare a livello nazionale in uno step successivo - afferma Matteo De Santi -. L’intento è quello di allargare la community dei professionisti, e raccogliere feedback sul forum. Inoltre vorremmo aumentare le pubblicazioni nel nostro blog, raccontando le storie del pubblico e del privato per favorire la cultura del design. In quanto a progetti, stiamo lavorando su una iniziativa open nata nel mondo della scuola: ma è ancora presto per rilasciare dichiarazioni».
Fonte:legge per tutti
La sicurezza sul luogo di lavoro: la giurisprudenza tradizionale attribuisce al medico competente ampi «poteri». La responsabilità del responsabile del servizio di protezione.
Originariamente, per la violazione degli obblighi di collaborazione non era prevista alcuna sanzione penale, introdotta soltanto successivamente con l’art. 35, co. 1, D.Lgs. 106/2009, che ha modificato l’art. 58 D.Lgs. 81/2008.
Quest’ultima disposizione sanziona, con la pena dell’arresto o dell’ammenda, la violazione, da parte del medico competente, dell’obbligo di collaborare con il datore di lavoro nella valutazione dei rischi.
L’incriminazione si muove nel solco di una linea di tendenza già accennata dal D.Lgs. 626/1994 (che, all’art. 17, lett. a), prevedeva la collaborazione del medico competente «alla predisposizione dell’attuazione delle misure per la tutela della salute e dell’integrità psicofisica dei lavoratori»), linea di tendenza rafforzata dal D.Lgs. 81/2008 (che ha ampliato l’ambito di intervento del medico competente, la cui collaborazione in materia di valutazione dei rischi è ora richiesta non più soltanto in vista della «predisposizione della attuazione delle misure per la tutela della salute e dell’integrità psicofisica dei lavoratori», ma anche della «programmazione della sorveglianza sanitaria» della
«attività di formazione e informazione nei confronti dei lavoratori» e della «organizzazione del servizio di primo soccorso»), e infine culminata nell’art. 35 D.Lgs. 106/2009 che ha presidiato con la sanzione penale l’inosservanza dell’obbligo di collaborazione. L’introduzione della sanzione penale ad opera del D.Lgs. 106/2009 riguarda soltanto il medico competente, mentre resta sottratto alla sanzione penale per mancata collaborazione il responsabile del servizio di prevenzione e protezione, cui pure è demandato un ruolo ausiliario.
In tal modo si è creata un’evidente disarmonia all’interno del sistema di prevenzione e protezione, poiché tra le due figure professionali, ugualmente gravate del ruolo di ausiliario del datore di lavoro in materia di valutazione dei rischi (il responsabile del servizio di prevenzione e protezione previsto dall’art. 33 e il medico competente), è stato assegnato rilievo penale solo alla mancata collaborazione di quest’ultimo e non, invece, a quella del primo.
Al medico competente è richiesto l’adempimento di un obbligo altrui quanto, piuttosto, lo svolgimento del proprio obbligo di collaborazione, che può essere eseguito anche fornendo al datore di lavoro rilievi e proposte in materia di valutazione dei rischi. Viene così delimitato l’ambito degli obblighi imposti dalla norma al medico competente, adempiuti i quali l’eventuale ulteriore inerzia del datore di lavoro resterebbe imputata a sua esclusiva responsabilità penale a mente dell’art. 55, co. 1, lett. a), D.Lgs. 81/2008.
Un’altra tesi, invece, propone un’interpretazione più restrittiva dell’art. 58 D.Lgs. 81/2008, che limiterebbe l’obbligo di collaborazione a quelle attività nelle quali il medico competente venga direttamente coinvolto dal datore di lavoro.
La questione implica, in primo luogo, un’adeguata individuazione del ruolo assegnato al medico competente nell’ambito dell’organizzazione aziendale, ruolo che la dottrina qualifica di mera consulenza, evidenziando l’anomalia della sanzione penale (che non colpisce l’altra figura professionale del responsabile del servizio di prevenzione e protezione cui pure è attribuito il ruolo di consulente del datore di lavoro), poiché il medico competente non può obbligare il datore di lavoro a consultarlo né dispone di alcuna possibilità di iniziativa nella gestione del processo di valutazione dei rischi.
Deve osservarsi, a tale proposito, che l’ambito di attribuzione di compiti consultivi al medico competente è stato già oggetto di valutazione da parte della giurisprudenza con riferimento alla normativa previgente, considerando la figura professionale in esame — introdotta, per la prima volta, dall’art. 33 D.P.R. 303/1956 — e osservando che la competenza cui si riferiva la richiamata disposizione riguardava:
· da un lato, la valutazione delle condizioni di salute, avuto riguardo alle sostanze cui il lavoratore è esposto;
· dall’altro, l’aiuto al datore di lavoro — tenendo conto dell’esito delle visite effettuate — nell’individuazione dei rimedi da adottare contro le sostanze tossiche o infettanti o comunque nocive, escludendo, così, una posizione meramente esecutiva e attribuendo al medico competente un ruolo propulsivo che determinava, quale conseguenza, l’assunzione di un’autonoma posizione di garanzia in materia sanitaria [1].
A conclusioni analoghe si è pervenuti osservando che il medico aziendale è un collaboratore necessario del datore di lavoro, dotato di professionalità qualificata per aiutarlo nell’esercizio della sorveglianza sanitaria nei luoghi di lavoro dove essa è obbligatoria, aggiungendo che la sorveglianza sanitaria, pur costituendo un obbligo per il datore di lavoro per la tutela dell’integrità psico-fisica dei lavoratori, deve essere svolta attraverso la collaborazione professionale del medico aziendale [2].
Del resto, il ruolo di consulente del datore di lavoro è stato attribuito anche al responsabile del servizio di prevenzione e protezione, il quale, sebbene privo di capacità immediata mente operative sulla struttura aziendale, collabora con il datore di lavoro nell’individuazione e nella segnalazione dei fattori di rischio delle lavorazioni e nell’elaborazione delle procedure di sicurezza, di informazione e di formazione dei lavoratori, come disposto dall’art. 33 D.Lgs. 81/2008.
Da ciò consegue che, pur restando il datore di lavoro il titolare della posizione di garanzia in materia infortunistica, facendo a lui capo l’obbligo di effettuare la valutazione dei rischi e di elaborare il documento contenente le misure di prevenzione e protezione in collaborazione con il responsabile del servizio di prevenzione e protezione, non può escludersi una concorrente responsabilità, in caso di infortunio, anche nei confronti del responsabile del servizio di protezione, il quale, sebbene privo di poteri decisionali e di spesa tali da consentire un diretto intervento per rimuovere le situazioni di rischio, risponde del fatto lesivo quando sia oggettivamente riconducibile a una situazione pericolosa che egli avrebbe avuto l’obbligo di conoscere e segnalare, dovendosi presumere che alla segnalazione avrebbe fatto seguito l’adozione, da parte del datore di lavoro, delle necessarie iniziative idonee a neutralizzare detta situazione [3].
Occorre precisare, inoltre, che la condotta del medico competente, proprio per il ruolo assegnatogli, assume rilevanza penale anche in caso di totale inerzia del datore di lavoro che non provveda all’avvio della procedura di valutazione dei rischi di cui all’art. 29 D.Lgs. 81/2008.
Infatti, il medico assume elementi di valutazione non soltanto dalle informazioni che devono essere fornite dal datore di lavoro, quali quelle di cui all’art. 18, co. 2, ma anche da quelle che può e deve acquisire di sua iniziativa, in occasione delle visite agli ambienti di lavoro di cui all’art. 25, lett. l), nonché dalle informazioni fornite direttamente dai lavoratori sottoposti a sorveglianza sanitaria o da altri soggetti [4].
[1] Cass. pen. 21-12-2010, Di Mascio.
[2] Cass. pen., III, 11-12-2012, n. 1856
[3] Cass. pen. 30-3-2000, Camposano.
[4] Cass. pen. 9-12-2004, Fortebuono.
Fonte:legge per tutti
La responsabilità del medico sui luoghi di lavoro: la responsabilità della mancata predisposizione del D.V.R. da parte del datore di lavoro non può ricadere sul medico competente.
Le modalità semplificate di valutazione dei rischi previste dall’art. 29, co. 5, D.Lgs. 81/2008, se da un lato legittimano il datore di lavoro a non redigere un formale documento di valutazione dei rischi (D.V.R.), emettendo una semplice autocertificazione, dall’altro lato non lo esonerano dall’obbligo di procedere comunque alla valutazione dei rischi, alla quale il medico competente deve dunque prestare la sua collaborazione. Si è affermato che, poiché l’obbligo di redigere il D.V.R. ricade esclusivamente sul datore di lavoro, che non può delegarlo ad altri per l’esplicito divieto contenuto nell’art. 17, e poiché il medico competente non potrebbe surrogarsi nell’adempimento di un obbligo di facere proprio dell’imprenditore, la responsabilità della mancata predisposizione del D.V.R. da parte del datore di lavoro non potrebbe in nessun caso essere fatta ricadere sul medico competente.
Questa tesi, però, si risolve in una interpretatio abrogans dell’art. 58, lett. c), D.Lgs. 81/2008.
In realtà, ciò che si chiede al medico competente non è l’adempimento di un obbligo altrui (la redazione del D.V.R.) ma lo svolgimento del proprio obbligo di collaborazione, vale a dire l’esauriente sottoposizione al datore di lavoro dei rilievi e delle proposte in materia di valutazione dei rischi che coinvolgono le sue competenze professionali in materia sanitaria.
Una volta che il medico competente abbia assicurato quanto sopra, egli ha esaurito il perimetro della sua condotta doverosa, e l’eventuale inerzia del datore di lavoro comporterebbe l’esclusiva responsabilità penale di quest’ultimo ai sensi dell’art. 55, co. 1, lett. a) D.Lgs. 81/2008, che sanziona la mancata effettuazione della valutazione dei rischi da parte dell’imprenditore.
Ciò che conta, insomma, non è la mancata elaborazione del D.V.R. da parte del medico, ma la mancata evidenziazione dei rischi che il medico competente deve segnalare al datore di lavoro in una con le contromisure sanitarie necessarie.
Fonte:pensionioggi
Via libera del Consiglio di Stato, ma "con osservazioni", allo schema di decreto attuativo sull'Ape volontario, l'anticipo finanziario a garanzia pensionistica tramesso in via preliminare dal Consiglio dei Ministri che entrerà in vigore dopo l'estate. Il Consiglio di Stato - si legge nella nota - apprezza, innanzitutto, lo spirito dell’intervento normativo, il quale si inserisce in un più vasto programma volto a risolvere le criticità constatate, anche con riferimento al contesto internazionale ed europeo, all’indomani del d.l. n. 201 del 2011 (cd. “Riforma Fornero”), che ha profondamente inciso sul sistema previdenziale italiano. L’APE volontario rappresenta un’ulteriore risposta (dopo l’APE sociale e la riduzione del requisito contributivo per i lavoratori precoci) alle suddette criticità, a beneficio dei soggetti in possesso dei requisiti di cui all’art. 1, comma 167 della legge 11 dicembre 2016, n. 232 (età minima di 63 anni, almeno 20 anni di contributi e non più di 3 anni e 7 mesi dalla maturazione del diritto alla pensione).
Tali soggetti – nel rispetto dei vincoli economici e di finanza pubblica e coerentemente con l’assetto delineato dalla riforma pensionistica – possono ottenere un prestito corrisposto in quote mensili per dodici mensilità e fino alla maturazione del diritto alla pensione di vecchiaia. La restituzione del prestito avviene a partire dalla maturazione del diritto alla pensione di vecchiaia, con rate di ammortamento mensili per una durata di venti anni. Il prestito è coperto da una polizza assicurativa obbligatoria per il rischio di premorienza, assistita, in ultima istanza, dalla garanzia dello Stato.
Per meglio raggiungere tale obiettivo, il CDS ha proposto una serie di osservazioni al Governo, volte prevalentemente a rafforzare la tutela degli aventi diritto e a non delimitarne troppo l’ambito.
La prima osservazione riguarda la previsione, a domanda dell’interessato, dell’efficacia retroattiva della norma, in modo da sterilizzare il ritardo nell’emanazione del regolamento e far beneficiare degli effetti della misura fin dalla data del 1° maggio 2017, con conseguente maturazione del diritto alla corresponsione degli arretrati dei ratei dell’anticipazione pensionistica. Ciò potrebbe avvenire in favore di quei soggetti che versino in situazioni particolarmente disagevoli, anche a causa della perdita dell’attività lavorativa, e che tuttavia non si trovino nelle condizioni di potere beneficiare, in vista della maggiore flessibilità in uscita, degli strumenti dell’APE sociale o di quella per i lavoratori precoci.
Altra richiesta del Consiglio di Stato è una sollecita conclusione degli Accordi Quadro con la banche, i quali di fatto condizionano la pratica operabilità dell’istituto sia nel momento della stipulazione dei contratti di finanziamento e di assicurazione ai fini del perfezionamento della fattispecie di APE, sia in quello dell’esecuzione del rapporto nonchè di integrare gli indicatori per il monitoraggio sul funzionamento dell’intervento, soprattutto con quelle informazioni che attengono agli aspetti non disciplinati né dalla legge né dal decreto attuativo, bensì dagli accordi quadro (le condizioni generali e particolari del contratto di finanziamento e del contratto di assicurazione, l’informativa precontrattuale e contrattuale), e che concernono il punto centrale della riforma.
Il CDS chiede, inoltre, di affiancare, alla già prevista assistenza fornita dagli intermediari a ciò autorizzati (essenzialmente, i patronati), altre forme di comunicazione, informazione, interlocuzione e orientamento al pubblico, quali, per esempio, sportelli di ricevimento e di accoglienza presso l’Inps e numeri verdi, serviti da un adeguato call center; l’introduzione di strumenti di mediazione e di conciliazione che, per un verso, contribuiscano in via preventiva a elidere il contenzioso e, per altro verso, contribuiscano a risolvere in via successiva il contenzioso attraverso modalità alternative al sistema giurisdizionale ordinario, da attivarsi anche presso l’Inps; distinguere gli elementi la cui attestazione ricade sotto la responsabilità personale del richiedente e quelli, invece, rientranti sotto la piena responsabilità dell’Inps, poiché presenti nei suoi archivi.
Ulteriori rilievi vengono formulati sulla necessità di disciplinare più compiutamente il diritto di recesso dal contratto di finanziamento e dal contratto di assicurazione, in modo più trasparente verso il richiedente e più congruente con quanto previsto dalla disciplina bancaria (articoli 125-ter del Decreto legislativo 1º settembre 1993, n. 385) e a tutela dei consumatori (art. 67-duodecies del Codice del consumo, n. 206 del 6 settembre 2005).
Accanto c'è la richiesta di meglio circoscrivere, anche sul piano temporale, la rilevanza di eventuali pregresse situazioni debitorie ostative al riconoscimento del diritto all’APE, attesa la necessità, anche in ragione della natura onerosa del beneficio, di evitare eccessivi restringimenti della platea dei richiedenti di fronte a situazioni (essenzialmente, debiti pregressi e iscrizioni pregiudizievoli) non più caratterizzate da attualità o gravità.
Per il Consiglio di Stato occorre, poi, specificare nelle condizioni generali di contratto, mediante clausole chiare e immediatamente intellegibili, gli effetti conseguenti, in corso di erogazione dell’APE, all’adeguamento dei requisiti pensionistici all’aspettativa di vita, quali che essi saranno (rideterminazione del piano di ammortamento, della relativa rata mensile o finanche della durata del finanziamento), incidendo gli stessi sulla fase di esecuzione del contratto e sul sinallagma contrattuale;
Infine, i giudici amministrativi, chiedono di delimitare i poteri esercitabili dall’istituto finanziatore in relazione alla verifica delle dichiarazioni effettuate dal soggetto richiedente e di circoscrivere i casi di esclusione che determinano la mancata accettazione della proposta del contratto di finanziamento, avendo la legge inteso istituire un regime regolamentato all’interno del quale si svolge una contrattazione che non è “libera”, bensì ancorata a precisi casi di rifiuto di stipulare. I giudici suggeriscono altresì l’introduzione, a tal fine, di una misura utile a evitare o ridurre anche un futuro contenzioso, quale potrebbe essere un sub-procedimento interlocutorio avente ad oggetto richieste di chiarimento da formularsi da parte dell’istituto finanziatore al soggetto richiedente, con risposte da presentarsi mediante osservazioni scritte.
· Fonte:pensioni oggi Scritto da Valerio Damiani
Il prossimo vertice politico del 27 luglio tra Governo e sindacati costituirà un primo tagliando alle uscite anticipate e sarà l'occasione per fare il punto sulla fase due della riforma della previdenza. Al centro del tavolo ci sono le richieste dei sindacati con l’obiettivo di ampliare le platee destinatarie dell'ape sociale, riducendo i requisiti contributivi per le donne: si potrebbe scendere dai 30 anni di contributi (36 anni per i lavori gravosi) a 27 anni (33 anni per i lavoratori gravosi) ma lo sconto potrebbe anche essere superiore e toccare i cinque anni. Mentre non dovrebbe essere toccato il requisito anagrafico, pari a 63 anni. I dati dell'Inps sulle domande degli anticipi pervenute hanno, infatti, mostrato la scarsità delle domande di pensionamento anticipato per le lavoratrici che, come noto, non riescono a raggiungere i requisiti contributivi minimi richiesti dalla normativa. Un punto sul quale ci sarebbe la disponibilità del Governo a dei correttivi.
Altro punto di confronto sarà la possibilità di estendere le misure (Ape sociale e quota 41) ai lavoratori disoccupati a seguito di licenziamento che non hanno goduto degli ammortizzatori sociali o per mancanza dei requisiti o per scadenza del termine per la presentazione della domanda). Proprio ieri l'esecutivo ha risposto, in occasione di una interrogazione parlamentare alla Camera dei Deputati, indicando che questo correttivo era stato inserito nei DPCM attuativi ma poi il Consiglio di Stato, a causa della mancata copertura legislativa, ha imposto un passo indietro. Dato il gran numero di istanze pervenute aumenta anche la possibilità che la misura sia prorogata oltre il 2018. I sindacati chiedono anche alcuni correttivi all'ottava salvaguardiapensionistica e la proroga dell'opzione donna in vista del sottoutilizzo delle risorse stanziate per tali canali di pensionamento oltre, naturalmente, ad uno stop al prossimo adeguamento alla speranza di vita che rischia, nel 2019, di portare l'età pensionabilea 67 anni. L'ipotesi che si fa strada, sostenuta da Damiano, è di garantire lo stop agli adeguamenti perlomeno ai undici lavori gravosi coniati dall'ultima legge di bilancio (infermieri, edili, conciatori, maestre dell'infanzia eccetera).
Sullo sfondo restano i capitoli da affrontare della cd. fase due della previdenza, che includono la “pensione contributiva di garanzia” per i giovani, il rilancio della previdenza complementare con la parificazione tra pubblico e privato, l’eliminazione del vincolo sulla misura dell'assegno per chi è nel contributivo (si punta a togliere il vincolo di 1,5 volte l'assegno sociale per chi esce a 66 anni e 7 mesi e ridurre da 2,8 a 1,5 volte il vincolo per chi esce a 63 anni e 7 mesi), la “valorizzazione” del lavoro di cura a fini previdenziali(la proposta dei sindacati è di uno sconto di un anno per ogni figlio e ulteriori agevolazioni per chi assiste i disabili), la rivalutazione degli assegni al costo della vita, la questione del recupero del potere d'acquisto delle pensioni, la separazione da previdenza e assistenza.